La guerra, l’Iran e noi

La guerra, l’Iran e noi

Mentre scriviamo sembrerebbe essersi conclusa la guerra dei 12 giorni tra Israele e l’Iran, anche se mai come in questo caso il condizionale è d’obbligo. Con i bombardamenti israeliani iniziati il 13 giugno e poi con quelli statunitensi della notte tra sabato e domenica, abbiamo assistito a quella che può essere definita tranquillamente un’aggressione imperialista in purezza, e proprio da questo dovremmo partire per comprendere quale posizione assumere nei confronti dell’Iran.

Per molto tempo infatti il concetto stesso di imperialismo era stato eliminato dalla cassetta degli attrezzi della sinistra occidentale perché ritenuto ormai obsoleto ed inutile per analizzare le dinamiche di un mondo sempre più interconnesso e globalizzato.

Con la guerra tra la Nato e la Russia (per interposta Ucraina) il termine è stato però progressivamente rispolverato ed utilizzato con disinvoltura anche dal sistema informativo mainstream, generando più di qualche fraintendimento persino tra i compagni. Per questo prima di proseguire crediamo sia utile, anche a costo di sembrare ridondanti, ribadire schematicamente almeno due cose.

La prima è che l’imperialismo non è una categoria morale, non è un sostantivo che può essere adoperato per descrivere quanto sia “cattivo” questo o quel dittatore o quanto siano esecrabili le mire espansionistiche di questo o quello stato. L’imperialismo descrive una fase dello sviluppo del modo di produzione capitalistico e come tale dev’essere maneggiato.

Se questo può suonare scontato (o almeno dovrebbe), meno ovvio è cercare di comprendere come alcune delle caratteristiche dell’imperialismo del XXI secolo si discostino da quelle tratteggiate da Lenin nel famoso opuscolo del 1916. Quando “L’imperialismo fase suprema del capitalismo” venne mandato alle stampe lo stato egemone era rappresentato ancora dalla Gran Bretagna che rivestiva al tempo stesso il ruolo di “fabbrica del mondo” e di maggiore creditore internazionale. Londra, oltre ad aprirsi nuovi mercati a forza di invasioni, bombardamenti e massacri dei popoli colonizzati, esportava merci e, soprattutto, capitali in cerca di valorizzazione.

Dal secondo dopoguerra questo ruolo di stato egemone è stato occupato dagli Stati Uniti che però, a partire dalla rottura unilaterale degli accordi di Bretton Woods nel 1971, si sono progressivamente trasformati in uno stato debitore che importa capitali e con una bilancia commerciale perennemente in rosso.

Purtroppo il ritardo nell’analisi delle trasformazioni occorse in questi decenni non permettono una caratterizzazione sufficientemente puntuale del nuovo imperialismo, ma ci sembra di non andare troppo lontani affermando che ciò che oggi ci troviamo di fronte è essenzialmente un imperialismo “monetario” che si fonda sull’assoluto predominio del dollaro come moneta di scambio internazionale e come moneta di riserva. Un “privilegio esorbitante” che, a partire dalla fine gold-dollar standard, ossia da quando un dollaro… vale un dollaro, viene garantito dal potere di persuasione politica di Washington o, in ultima istanza, dalle oltre 700 basi militari sparse per il mondo e dal dominio militare statunitense che ne discende.

Ed è in questo contesto globale, con catene del valore che ormai esondano i confini dei singoli stati nazione (altro elemento di differenziazione) che vanno quindi analizzate le gerarchie e le relazioni internazionali e che al tempo stesso va compreso perché, anche per effetto di traiettorie storiche e congiunture politiche peculiari, ci siano oggi stati (così come movimenti politici o sociali) che, anche se ideologicamente lontanissimi da noi, si trovano comunque a svolgere “oggettivamente” una funzione di contrasto e di ostacolo allo svolgimento dal pieno dispiegamento dell’egemonia imperialista statunitense. Una funzione che quindi non può che dirsi oggettivamente antimperialista e che non può che essere vista positivamente da chi individua nell’imperialismo la contraddizione da cui discendono tutte le altre e che oggi mette a rischio il futuro stesso dell’umanità.

Anche qui una puntualizzazione è d’obbligo per evitare fraintendimenti: antimperialista non è un sinonimo di “buono”, di comunista e nemmeno di anticapitalista. Se è vero che un comunista non può non essere un antimperialista, non è invece vero il contrario. Se è vero che un movimento politico rivoluzionario non può non essere antimperialista, non è invece vero il contrario. Se è vero che uno stato con un’economia socialista non può non essere antimperialista, non è invece vero il contrario. E non solo l’Iran, ma anche Hamas nella Palestina occupata, Hezbollah in Libano o gli Houthi nello Yemen in questo momento ne sono un esempio concreto. Pur da posizioni retrive, tutt’altro che socialisteggianti, e nonostante abbiano declinato il conflitto con l’imperialismo in termini prettamente confessionali, è però innegabile che i componenti del cosiddetto “Asse della Resistenza” abbiano rappresentato nel tempo e, per fortuna, continuino a rappresentare una spina nel fianco dell’imperialismo e del colonialismo sionista che in Medio Oriente ne è un’articolazione. Al contrario, ad esempio, di quanto accaduto con altri movimenti che per quanto “progressisti”, sempre in Medio Oriente, indipendentemente dalla loro volontà, hanno finito per farsi strumento degli interessi statunitensi nell’area. A dimostrazione che è il ruolo che oggettivamente svolgi a definirti piuttosto che la tua auto rappresentazione.

Ovviamente, e non potrebbe essere altrimenti, il sostegno a queste forme di resistenza antimperialista non significa certo ignorare o nascondere sotto al tappeto le contraddizioni enormi che pure si generano all’interno di queste società o di questi movimenti politici.

Ci riferiamo qui all’oppressione di genere e alla compressione delle libertà e dei diritti civili che sono oggetto di riflessioni e discussioni anche accese all’interno del nostro campo. Così come il modello sociale, a volte apertamente liberistico. Come si può parteggiare per un “regime” oscurantista?

Si tratta di questioni maledettamente serie, reali e concrete che diventano scivolosissime perché spesso proprio l’imperialismo se ne è servito in maniera strumentale e pretestuosa per portare avanti progetti di regime change e di rivoluzioni colorate decidendo di volta in volta su chi e su che cosa accendere i riflettori dell’interesse mediatico e dell’indignazione dell’opinione pubblica globale e finanziando con milioni di dollari Ong, movimenti e associazioni compiacenti.

Ancora una volta l’Iran rappresenta un esempio da manuale di questo doppio standard. Prendiamo ad esempio la condizione femminile: è innegabile come le iraniane siano oggi soggette ad una cultura patriarcale asfissiante; è altrettanto vero però che quella stessa condizione, per quanto critica, è ben lontana dalla rappresentazione “medievale” che ne viene fornita dai media internazionali. Una descrizione che, invece, meglio si adatta a raccontare ciò che accade nei paesi dell’area alleati degli Stati Uniti. Petromonarchie, è sempre bene ricordarlo, dove a vivere in uno stato di minorità ci sono anche milioni di proletari provenienti soprattutto dal sud-est asiatico ridotti in condizioni di semischiavitù, senza che questo crei il minimo problema a opinion maker e cancellerie occidentali.

Al tempo stesso però, e qui sta un punto essenziale, non si può nemmeno immaginare di bollare ogni movimento di protesta o ogni sciopero come se fosse il frutto dell’intelligenza col nemico o di un’ingererenza esogena. Sarebbe miope e ci condurrebbe dritti dritti in una sorta di campismo fuori tempo massimo.

Come dicevamo è una questione maledettamente seria e per cui per orientarci dovremo continuare ad utilizzare come una bussola il principio leniniano del diritto dei popoli all’autodeterminazione ed il rifiuto di ogni ingerenza imperialista. Consapevoli che le trasformazioni sociali così come l’evoluzione dei costumi sono processi endogeni che non possono essere prodotti a suon di bombe o attraverso l’imposizione dei nostri modelli culturali.