Aux armes, citoyens, Formez vos bataillons!

Aux armes, citoyens, Formez vos bataillons!

Nel suo 224° anniversario, riviviamo l’assalto al cielo del popolo francese tramite uno stralcio di quei giorni narrati da Victor Hugo nel suo “Novantatrè”, ancora oggi il libro che più di ogni altro riesce a rievocare le sensazioni e le emozioni vive della rivoluzione. Di ogni rivoluzione.

Parigi, 1793

Si viveva in pubblico; si mangiava su tavole apparecchiate fuori dell’uscio; le donne, sedute sulle gradinate delle chiese, facevano filacce cantando la “Marsigliese”; il parco Monceau e il Lussemburgo erano piazze d’armi; a ogni crocevia c’erano armaioli che lavoravano a tutto andare, fabbricando fucili sotto gli occhi dei passanti, che battevano le mani; sulle bocche di tutti, non si udivano che queste parole: “Pazienza. Siamo in tempo di rivoluzione!”. Tutti sorridevano eroicamente. Tutti andavano a teatro come ad Atene durante la guerra del Peloponneso; sulle cantonate si leggevano manifesti di questo tenore: “L’assedio di Thionville” – “La madre di famiglia salvata dalle fiamme” – “Il circolo degli Spensierati” – “Giovanna, la maggiore delle papesse” – “I filosofi soldati” – “L’arte di amare al paese”. I tedeschi erano alle porte; correva voce che il re di Prussia avesse fatto prenotare alcuni palchi al teatro dell’Opera. Tutto era spaventevole e nessuno era spaventato. La tenebrosa legge dei sospetti, delitto di Merlin di Douai, rendeva visibile la ghigliottina al di sopra di ogni testa. Un procuratore, chiamato Séran, denunciato, aspettava che andassero ad arrestarlo, in veste da camera e in pantofole, suonando il flauto alla finestra. Nessuno pareva aver tempo. Tutti si affrettavano. Non un cappello che non avesse una coccarda. Le donne dicevano: “Siamo belle sotto il berretto rosso”.

Parigi sembrava tutta un sol trasloco. I negozi dei rigattieri erano ingombri di corone, di mitrie, di scettri di legno dorato e di gigli, spoglie delle case reali. Era la demolizione della monarchia in marcia. Si vedevano presso gli straccivendoli cappe e rocchetti in vendita a “qualunque prezzo”. Ai Porcherons e da Ramponneau, uomini imbaccuccati in cotte e stole, in groppa a somari bardati con pianete, si facevano mescere il vino dell’osteria nei cibori delle cattedrali.

In via Saint-Jacques, selciatori a piedi nudi fermavano la carretta d’un facchino che vendeva scarpe, si quotavano un tanto a testa e acquistavano quindici paia di scarpe, che mandavano alla Convenzione per i nostri soldati. I busti di Franklin, di Rousseau, di Bruto e, bisogna aggiungere, di Marat, abbondavano; al di sotto d’uno di quei busti del Marat in via Cloche-Perce, era appesa sotto vetro, in una cornice di legno nero, una requisitoria contro Molouet con fatti a riprova e, in margine, queste due righe: “Questi particolari mi sono stati forniti dall’amante di Silvano Bailly, buon patriota, che mi usa qualche bontà. – Firmato: Marat”. Sulla piazza del Palazzo Reale, l’iscrizione della fontana: “quantos effundit in usus!” [A quanto grandi utilità s’effonde!] era nascosta da due grandi tele a tempera, rappresentanti, l’una Cahier de Gerville in atto di denunciare all’Assemblea nazionale il segno di riconoscimento dei “chiffonnistes” di Arles, l’altra Luigi Sedicesimo ricondotto da Varennes nella sua reale carrozza, e sotto questa carrozza una tavola legata con delle corde, che reggeva alle due estremità due granatieri con la baionetta inastata.

Dei grandi negozi, pochi erano aperti: mercerie e chincaglierie ambulanti circolavano su carrelli trascinati da donne, illuminati da candele che sgocciolavano il sego sulle mercanzie; botteghe all’aria aperta erano esercite da ex monache in bionda parrucca; una rammendatrice, che aggiustava calze in uno sgabuzzino, era una contessa; una sarta era una marchesa; la signora di Boufflers abitava una soffitta di dove scorgeva il suo palazzo. Dovunque correvano strilloni, che offrivano “fogli-notizie”. Coloro che nascondevano il mento nella cravatta si chiamavano “scrofolosi”. Pullulavano i cantatori ambulanti. La folla fischiava il Pitou, scrittore di canzoni monarchiche, che del resto era un coraggioso, giacché fu arrestato ventidue volte, e fu tradotto davanti al tribunale rivoluzionario per essersi battuto il fondo delle reni pronunciando il vocabolo “civismo”. Vedendo la propria testa in pericolo, esclamò: “Ma il colpevole non è la mia testa, è proprio l’opposto!”, il che fece ridere i giudici e lo salvò. Quel Pitou scherniva la moda dei nomi greci e latini; la sua canzone favorita si riferiva a un ciabattino, da lui chiamato Cujus, e del quale chiamava Cujusdam la moglie.

Dovunque si ballava la carmagnola; però, non si diceva “il cavaliere e la dama”, si diceva “il cittadino e la cittadina”. Si ballava nei chiostri in rovina, con lampioni sull’altare, con quattro candele rette da due bastoni in croce appesi alla volta, e con le tombe sotto i piedi di chi ballava. La gente indossava marsine azzurre, da tiranno. C’erano spille da camicia “berretto della libertà”, fatte di pietruzze bianche, turchine e rosse. Via Richelieu si chiamava via della Legge; il Faubourg Saint-Antoine si chiamava Faubourg della Gloria; sulla piazza della Bastiglia sorgeva una statua della Natura.

Noti passanti venivano mostrati a dito da tutti: lo Chatelet, il Didier, il Nicolas e il Guarnier-Delaunay, che vegliavano alla porta del falegname Duplay (1), Voullant che non mancava un giorno di assistere al lavoro della ghigliottina e seguiva le carrettate di condannati, chiamando quell’usanza “andare alla messa rossa”, Montflabert, giurato rivoluzionario e marchese, che si faceva chiamare “Dieci Agosto”. Si guardavano sfilare gli allievi della Scuola militare, qualificati dai decreti della Convenzione “aspiranti alla scuola di Marte”, e dal popolo “paggi di Robespierre”. Si leggevano i proclami del Fréron, denunciante i sospetti del delitto di “botteghismo”. I “moscardini”, assembrati alle porte dei municipi, sbeffeggiavano i matrimoni civili; si ammassavano al passaggio della sposa e dello sposo e dicevano: “Sposi “municipaliter””. Agli Invalidi, le statue dei santi e dei re avevano in testa berretti frigi. Si giocava a carte sui pilastrini dei crocicchi; i mazzi di carte erano anch’essi in piena rivoluzione: i re erano sostituiti dai geni, le donne dalle libertà, i fanti dalle uguaglianze e gli assi dalle leggi. Si vangavano i pubblici giardini; alle Tuileries lavorava l’aratro. A tutto questo era confuso, specialmente nei partiti sopraffatti, una certa qual altezzosa sazietà di vivere. Un uomo scriveva a Fouquier-Tinville: “Abbiate la bontà di liberarmi dalla vita. Eccovi il mio indirizzo”. Champcenetz veniva arrestato per aver esclamato in pieno Palazzo Reale: “A quando la rivoluzione in Turchia?

Vorrei vedere la repubblica alla Porta!”. Giornali dovunque. Garzoni parrucchieri arricciavano in pubblico parrucche da donna, mentre il padrone leggeva ad alta voce il “Monitore”; altri commentavano in mezzo a capannelli di gente, con gran dovizia di gesti, il giornale “Intendiamoci”, di Dubois-Crancé, o la “Trombetta del padre Bellerose”. Si dava il caso che i barbieri fossero al tempo stesso salumieri, e allora si vedevano prosciutti e salsicciotti pendere a fianco d’un manichino dai capelli d’oro. C’erano negozianti che vendevano sulla pubblica via “vini di emigrati”; uno offriva vini di cinquantadue tipi diversi; altri barattavano pendole foggiate a mo’ di lira e sofà del tipo “alla duchessa”; un parrucchiere ostentava questa insegna: “Io rado il clero, pettino la nobiltà, accomodo il terzo stato”. La gente andava a farsi fare il gioco delle carte da Martin, al numero 173 di via d’Angiò, già Delfina. Mancava il pane; mancava il carbone; mancava il sapone; si vedevano passare mandrie di vacche da latte provenienti dalle province. Alla Vallée, si vendeva l’agnello a quindici franchi la libbra. Un manifesto della Comune assegnava a ogni bocca una libbra di carne per decade. Alla porta dei negozi si faceva la coda, ed è rimasta leggendaria quella che andava dalla bottega d’un droghiere di via Petit-Carreau fino a metà della via Montorgueil. Fare la coda si diceva “tenere la corda”, per via d’una lunga fune che prendevano in mano, uno dopo l’altro, quelli che si mettevano in fila.

Le donne, in tanta miseria, erano coraggiose e dolci. Trascorrevano le notti ad attendere che venisse la loro volta d’entrare dal fornaio.

Gli espedienti riuscivano bene, alla rivoluzione; essa alleviava quella angoscia senza limiti con due mezzi pericolosi: l’assegnato e il calmiere; l’assegnato era la leva, il calmiere era il fulcro. Tale empirismo salvò la Francia. Il nemico, tanto quello di Coblenza quanto quello di Londra, speculava sull’assegnato. Andavano e venivano donnine allegre, che offrivano lavanda, giarrettiere e catenelle, e speculavano; c’erano gli speculatori del Perron di via Vivienne, dalle scarpe infangate, dai capelli unti e dal berretto di pelo a coda di volpe, e c’erano quelli di via di Valois, stivaletti lucidi, lo stuzzicadenti in bocca, cappello peloso in testa, che le donnine allegre trattavano familiarmente. Il popolo dava loro la caccia, come ai ladri, che i monarchici chiamavano “cittadini attivi”. Pochissimi furti, del resto. Feroce miseria e stoica probità. Gli straccioni e i morti di fame passavano davanti alle vetrine dei gioiellieri di Palazzo Uguaglianza con gli occhi gravemente abbassati. In una visita domiciliare operata dalla Sezione Antonio in casa di Beaumarchais, una donna, in giardino, colse un fiore: il popolo la schiaffeggiò. La legna costava quattrocento franchi d’argento alla carrettata; si vedeva gente, per la strada, che segava il legname del loro letto.

D’inverno, le fontane erano gelate; l’acqua costava venti soldi al secchio; tutti si costituivano portatori d’acqua. Il luigi d’oro valeva tremilanovecentocinquanta franchi. Una corsa in carrozza da piazza costava cinquecento franchi. Dopo una giornata di corse si udiva questo dialogo: “Quanto vi debbo, cocchiere?”. “Seimila lire”.

Un’erbivendola vendeva per ventimila franchi al giorno. Un mendicante diceva:

“Aiutatemi, per carità! Mi mancano duecentotrenta lire per pagarmi le scarpe”. All’imbocco dei ponti, si vedevano colossi scolpiti e dipinti da David, che Mercier insultava chiamandoli “enormi pulcinella di legno”. Quei colossi rappresentavano il Federalismo e la Coalizione atterrati. Nessuna debolezza in quel popolo. La severa gioia di averla finita con i troni. I volontari affluivano, offrendo i loro petti.

Ogni strada dava un battaglione. Le bandiere dei distretti andavano e venivano, ciascuna col suo motto. Su quella del distretto dei Cappuccini si leggeva: “Nessuno ci farà la barba”. Su un’altra: “Non più nobiltà, se non nel cuore”. Su tutti i muri manifesti grandi, piccoli, bianchi, gialli, verdi, rossi, stampati, manoscritti sui quali si leggeva questo grido: “Viva la Repubblica!”. I bimbi balbettavano: “Ça ira!”.

Questi bimbi erano l’immenso avvenire.

Con l’andar del tempo, alla città tragica succedette la città cinica; le strade di Parigi hanno avuto due aspetti rivoluzionari nettamente distinti tra di loro, prima e dopo il 9 termidoro; la Parigi di Saint- Just lasciò il posto alla Parigi di Tallien. Sono le continue antitesi di Dio, queste: immediatamente dopo il Sinai apparve la Courtille (2).

Un accesso di follia pubblica, è cosa che si verifica. Si era già visto ottant’anni prima. Si esce da Luigi Quattordicesimo come si esce da Robespierre: con un gran bisogno di respirare. Da ciò la Reggenza, che apre il secolo, e il Direttorio, che lo conclude. Due saturnali dopo due terrorismi. La Francia se la svigna fuori del chiostro puritano come fuori di quello monarchico con la gioia di una nazione in vacanza.

Dopo il 9 termidoro, Parigi fu grandiosa d’un gaudio fuori luogo.

Traboccò una gioia malsana. Alla frenesia di morire tenne dietro la frenesia di vivere, e la grandezza si eclissò. Si ebbe un Trimalcione che si chiamò Grimod di La Reynière, si ebbe l'”Almanacco dei Ghiottoni”. Si pranzò, nei mezzanini del Palazzo Reale, al frastuono delle fanfare, con orchestre di donne che battevano il tamburo e suonavano la trombetta; regnò, archetto in pugno, il direttore d’orchestra; si cenò, da Méot, all'”orientale”, in mezzo a incensieri pieni di profumi. Il pittore Boze dipingeva le sue figliole, innocenti e deliziose testine di sedici anni, da “ghigliottinate”, vale a dire scollacciate e con le camicie rosse. Alle violente danze nelle chiese in rovina tennero dietro i balli di Ruggieri, di Luquet, di Wenzel, di Mauduit, della Montansier; alle gravi cittadine che facevano filacce tennero dietro le sultane, le selvagge, le ninfe; ai piedi scalzi, coperti di sangue, di fango e di polvere, dei soldati, tennero dietro i piedi nudi delle donne, ornati di diamanti; insieme con l’impudicizia, fece la sua ricomparsa l’improbità; ci furono, in alto, i fornitori e, in basso, i ladruncoli; Parigi fu gremita da un formicolio di ladri, e ciascuno dovette vegliare sul suo “luc”, che è quanto dire sul suo portafoglio. Uno dei passatempi, era quello di andare a vedere, in piazza del Palazzo di Giustizia, le ladre messe alla berlina: si era costretti a legar loro le gonne. All’uscita dai teatri, i monelli offrivano carrozzelle dicendo: “C’è posto per due, cittadino e cittadina”. Non si strillava più il “Vecchio cordigliere” e l'”Amico del popolo”, ma si strillava la “Lettera di Pulcinella” e la “Petizione dei monelli”; il marchese De Sade presiedeva la sezione delle Picche, in piazza Vendôme. La reazione era gioviale e feroce; i “Dragoni della Libertà” del ’92 rinascevano sotto il nome di “Cavalieri del Pugnale”. Sul palcoscenico, frattanto, si concretò il tipo di Jocrisse. Si ebbero le “meravigliose” e, al di là delle meravigliose, le “inconcepibili”; si giurò sulla propria “paole victimée” e sulla propria “paole verte”; si indietreggiò da Mirabeau fino al Bobèche (3). Parigi va e viene in questo modo; è l’enorme pendolo della civiltà; tocca a volta a volta l’uno e l’altro polo, le Termopili e Gomorra. Dopo il ’93, la rivoluzione attraversò una singolare eclissi; il secolo parve dimenticare di portare a termine ciò che aveva cominciato; s’interpose una non si sapeva qual orgia, occupò il primo piano, ricacciò nel secondo la spaventosa apocalisse, velò la smisurata visione e, dopo lo spavento, scoppiò a ridere. La tragedia scomparve nella parodia, e in fondo all’orizzonte carnascialeschi vapori cancellarono vagamente Medusa.

Ma nel ’93, l’anno in cui ci troviamo, le vie di Parigi avevano ancora tutto l’aspetto grandioso e selvaggio degli inizi. Avevano i loro oratori, il Varlet che portava in giro una baracca montata su ruote dall’alto della quale arringava i passanti; avevano i loro eroi, uno dei quali si chiamava “il capitano dei bastoni ferrati”; avevano i loro favoriti, Guffroy, autore del libello “Rougiff”. Di queste popolarità, ve ne erano alcune malefiche; altre erano sane. Una fra tutte era onesta e fatale: quella di Cimourdain.