PCI: cosa è stato e cosa ne rimane
Con questo piccolo documentario di nostra produzione esordisce il “Militant Tube”, ovvero il tentativo di provare ad utilizzare in maniera continuativa anche il linguaggio dei video nella nostra “battaglia delle idee”. E quale occasione migliore se non il centenario della fondazione del PCdI. Un centenario che ha fatto parlare e continua a far parlare tante persone, forse anche troppe. La maggior parte di queste hanno infatti usato l’anniversario per gettare ulteriore fango sul comunismo, spettro che evidentemente ancora agita i sonni della borghesia italiana. Altri lo hanno ricordato con sguaiata nostalgia, vittime del bel tempo che fu e della propria giovinezza, edificandone un mito spesso in antitesi con la realtà effettiva. Per quanto ci riguarda, non abbiamo leggende da alimentare né conti da risolvere. Abbiamo però rispetto per la storia del movimento operaio, di cui ci ostiniamo a fare parte, e di cui sicuramente fu protagonista il Partito comunista italiano. Nel bene come nel male. Più nel male che nel bene, potremmo aggiungere. Per tanto tempo nel nostro paese le sorti del movimento operaio si identificarono con quelle del Pci, e questo è un fatto. Un altro fatto è che dagli anni Sessanta in avanti il movimento operaio concluse l’esperienza della sua sovrapposizione al comunismo “ufficiale”, moltiplicandosi e fuoriuscendo dal rigido controllo politico operato da Togliatti. Anche qui nel bene come nel male, le ragioni del comunismo e quelle della rivoluzione tornarono a divaricarsi, disordinando un quadro che fino a quel momento affidava alla placida competizione legale-elettorale il massimo dell’alternativa politica pensabile. Eppure la storia del Pci, nonostante tutto, non è una storia liquidabile attraverso formule più o meno estremiste. È parte di un problema complicato e lacerante: la rivoluzione in Occidente. Come si organizza la rivoluzione nei paesi a capitalismo maturo? Il partito comunista, forte di un Gramsci piegato alle ragioni strumentali della tattica politica del dopoguerra, si adagiò in una “guerra di posizione” che divenne, rapidamente, tattica di posizionamento, e infine strategia del compromesso. Il velo e le ambiguità su cui pure continuò a giocare il ceto intellettuale organico al partito caddero negli anni Settanta, quando nuovi soggetti rivoluzionari, o semplicemente comunisti, scalfirono il controllo del partito sulla classe operaia nazionale. Il partito prima non comprese, poi introiettò le logiche della repressione. Il partito della classe operaia si trasformò in partito dello Stato nella classe operaia. Concludendo una storia iniziata con quella scissione di Livorno che voleva rompere con l’immobilismo e i tradimenti della socialdemocrazia. Si potrebbe allora liquidare tutto questo con poche battute sprezzanti. Eppure, ancora una volta, la mancata riposta alla domanda: “come si fa una rivoluzione in Occidente?”, ci costringe a studiare, ricordare e, perché no, “celebrare” la nascita del Pci come momento decisivo delle lotte di classe in Italia, il momento in cui il proletariato italiano stabilì la propria indipendenza politica. Da quel momento, e fino al 1989, la classe operaia italiana parlò e si organizzò in maniera indipendente, autonoma, libera dai maneggi del confronto politico borghese, affrancata dai vincoli e da una sottomissione storica che ne costituiva l’eterno bavaglio. Forse spese male questa indipendenza, eppure, osservando oggi la scena politica del paese, è proprio questo a mancare più di ogni altra cosa: l’indipendenza politica delle classi subalterne.