In guerra ogni nazista è bell’ ‘a mamma soja
Pur traballante, la memoria storica di questo paese dovrebbe, o avrebbe dovuto, stupirsi della rapida relativizzazione del nazismo in corso dal 24 febbraio in avanti. Il “male assoluto” evidentemente così “assoluto” non era: e non solo per le molteplici accuse di “nazismo” affibbiate ai russi e/o a Putin. In una guerra che è anche – come sempre – una guerra comunicativa, il nemico contingente è sempre il nemico assoluto.Quello che è in corso nel nostro paese, in linea con ciò che accade nel resto d’Occidente (ma solo in Occidente, attenzione), è un fatto diverso: il recupero per fini politico-ideologici del nazismo, anzi del neonazismo.
Quel nazismo e neonazismo presentato fino a ieri, appunto, come non plus ultra del male nella storia, l’anti-uomo e l’anti-umanità par excellance. L’ironia della storia, si dirà. Un’ironia ancor più caustica, se pensiamo che fino al 23 febbraio erano proprio i comunisti ad essere accusati di voler “relativizzare il nazismo”, rifiutando, questi, qualsiasi assolutizzazione del male, ricordando come la storia dell’uomo fosse colma di stermini di massa, genocidi, cancellazione di popolazioni e di etnie, di brutalità inenarrabili che facevano del nazismo una prosecuzione della storia, non il suo apice di brutalità. Il presunto unicum sterminatore degli ebrei non era propriamente così “unico”: gli armeni o gli indiani, gli africani – di ogni latitudine – o i guatemaltechi, gli indonesiani e i vietnamiti, e altri centinaia di popoli massacrati nel corso della vicenda umana impedivano alla razionalità storica di assegnare un vertice solitario al popolo ebraico. E questo, ovviamente, senza togliere nulla dell’orrore Shoà, ma senza neanche assecondare l’operazione postuma, molto postuma, di uso politico del genocidio ebraico ai fini politico-militari dello Stato di Israele. Insomma, che Hitler non fosse il “male assoluto”, ma presenza costante del male nella storia, ne eravamo ben consapevoli, noi molto prima dei corifei liberali.
Oggi, invece, assistiamo al traumatico capovolgimento. Saranno pure nazisti, quelli del “battaglione Azov”, ma sono i nostri nazisti. E così, “denghianamente”, non importa di che colore è il (nostro) gatto: l’importante è che prenda il topo (russo). Non ne condivideremo la filosofia politica, ma siamo in guerra, poche chiacchiere. E così ecco rivalutata la svastica (un «simbolo slavo di pace», è stato detto in televisione, nell’ora di massimo ascolto, da un’ucraina infame); ecco recuperata la mitologia militare filo-nazista (dal “resistente” Bandera agli Alpini sul Don); ecco recuperato il collaborazionismo nazista anti-sovietico e anti-comunista degli anni Quaranta; ecco recuperata per intero la Polonia, quella stessa Polonia che fino a due mesi fa si presentava come stato paria del consesso europeo, al pari dei suoi sodali di Visegrád, tutti pienamente ritornati “tra i nostri”, anzi tra i migliori dei nostri, tranne Orbàn, colpevole di “filo-putinismo”, oggi massimo degli insulti. L’internazionale nera, sostenuta dall’apparato politico-ideologico-giornalistico-militare, diviene così il braccio armato d’Occidente. Come ogni braccio armato questo è sì poco presentabile in tempo di pace, quando il dibattito langue nelle aule parlamentari, ma necessario in tempi da lupi. Ribadiamo che, a nostra memoria, non vi è alcun precedente nella storia della Repubblica.
Lo sdoganamento fascista, ampiamente avvenuto da un trentennio abbondante, non aveva mai coinvolto il neonazismo. Neanche nei momenti più caldi della guerra fredda in Italia o altrove si erano recuperati “tra i nostri” i nostalgici violenti di Hitler, delle leggi razziali e dei lager. Oggi sì. E questo accompagnato da una sottovalutazione del fenomeno che coinvolge ampi settori di pensiero “democratico”. Democratico, sì, ma anche colonialista, incapace – nonostante l’egemonia dei famigerati post-colonial studies – di pensarsi fuori e contro l’etnocentrismo europeo e occidentale. Persino lo sterile pacifismo cristiano oggi può presentarsi come avanguardia, in un mondo che recupera una visione della nostra storia indifferenziata e opposta alla storia dei popoli stranieri.
Oggi è la Russia, domani la Cina. L’altrove costringe all’intruppamento, ma rompere il fronte interno diviene allora il primo dei compiti politici di chi si vuole “radicale”. L’importante è non collaborare, avrebbe chiosato Luciano Bianciardi.