Visioni Militant(i): J.Edgar di Clint Eastwood

Visioni Militant(i): J.Edgar di Clint Eastwood

 

Questo decennio appena trascorso ha concesso a Clint Eastwood una vera e propria seconda giovinezza. Infatti, con dodici film in dodici anni, si è confermato come uno dei registi più prolifici di Hollywood. Oltretutto, stiamo parlando di una persona che col tempo si è andata affermando come uno dei più grandi registi del cinema americano. A nostro giudizio, infatti, l’evoluzione e la trasformazione a cui è andato incontro Eastwood come regista ha pochi paragoni nel mondo del cinema. Una evoluzione piena d’intelligenza, che lo relega decisamente fra i migliori registi di questo ventennio. Solo una profonda saggezza e una assoluta consapevolezza cinematografica poteva trasformare un bravo caratterista degli anni sessanta in un regista affermato, capace di raccontare, con poeticità non comune, piccole storie dietro le quali si celava una profonda visione del mondo. Non certo la visione del giovane repubblicano autoritario e giustizialista dell’Ispettore Callaghan, e neanche quella degli esordi cinematografici dietro la macchina da presa, come ad esempio Assassinio sull’Eiger.  

 

Ne ha fatta di strada il vecchio Clint insomma, ed è quindi con profonda ammirazione e assoluto rispetto che siamo andati a vedere l’ultima sua opera, J. Edgar. Il film aveva attirato sin da subito la nostra curiosità e la nostra impaziente attesa: finalmente Eastwood affrontava un argomento politico, e decideva di svilupparlo direttamente, tramite la biografia di uno dei personaggi più importanti e controversi della storia recente statunitense: J. Edgar Hoover, il capo dell’FBI durante gli anni caldissimi fra il 1924 e il 1972. Mezzo secolo di storia americana ritratta dalla parte di chi ne teneva le redini,  ne determinava gli equilibri, da chi dietro le quinte manovrava, lecitamente e illecitamente, i poteri forti degli Stati Uniti.

Non poteva esserci personaggio più adatto a descrivere, attraverso una biografia, mezzo secolo di politica interna nordamericana. Quali che fossero le intenzioni del regista, il rischio di affrontare di petto la “grande” storia era grande e crediamo ne fosse pienamente consapevole. Non più storie di sbieco, scorci di vita quotidiana, piccole storie familiari, rapporti intimi fra genitori e figli: questa volta il pericolo era dietro l’angolo. E, purtroppo per Eastwood, un pericolo che si è dimostrato troppo grande per essere affrontato da una sensibilità umana – per quanto notevole come la sua – ma politicamente troppo inconsapevole o incosciente rispetto al compito prefisso.

 

Diciamo subito che il film non ci è piaciuto, e principalmente per alcuni motivi politici. La sensazione – forte – che emerge vedendo la pellicola, è che tutta la storia della repressione politica, della legislazione autoritaria, dei continui giri di vite e delle farneticazioni anticomuniste americane siano derivate dalla personalità deviata di Hoover. Personalità che si è imposta sul sistema americano a fatica, un sistema che controvoglia ne ha accettato le conseguenze. Un sistema che non può non uscirne pulito dal racconto del regista. Insomma, irretito dal racconto biografico, Eastwood perde di vista la Storia più generale, facendo passare il sistema poliziesco e legislativo americano come lassista e permissivista, “buono” con i comunisti e con i delinquenti quasi per svogliatezza più che per convinzione. Un sistema non corrotto ma disorganizzato, addirittura garantista anche politicamente. Quasi che, senza la necessaria “follia” di Hoover, gli Stati Uniti sarebbero caduti in una qualche forma di dittatura comunista. E’ chiaramente una visione che noi non possiamo accettare. Se Hoover fu certamente una pedina fondamentale del sistema americano, non possiamo nasconderci che fu appunto una pedina. Una persona, inserita in un contesto già ampiamente degenerato sin dai primi anni del novecento. Che utilizzò scientificamente la fobia socialista per alimentare paure irrazionali nella popolazione, giustificando così strette repressive e riduzioni dei diritti che ancora caratterizzano il sistema statunitense.

 

Oltre a questo, stiamo parlando di una delle figure più “sporche” dell’intero sistema politico americano. Un figura perennemente accusata di intessere rapporti con la mafia, di essere il mandante politico dell’assassinio di Martin Luther King, di aver sottaciuto e deviato l’inchiesta sull’uccisione di John Kennedy, nonché di essere il responsabile diretto della violazione di diritti civili e umani su migliaia di cittadini americani (oltre a un sacco di altre cose che a elencarle servirebbe troppo tempo, non è un caso che sia uno dei personaggi più narrati dalla letteratura americana contemporanea). Nel film, purtroppo, tutto questo non emerge. Se si intravede una certa dose di autoritarismo nella sua personalità, mancano totalmente i riferimenti a tutte queste accuse che, fondate o meno, sono ampiamente circolanti negli U.S.A. addirittura fra molti deputati del congresso.

Eastwood decide di far passare Hoover forse per un maniaco della legge, ma non per quel maneggione politico che in effetti fu. Decide di mostrare qualche lato sporco, ma solo “determinati” lati sporchi che, in fin dei conti, potevano tranquillamente essere fisiologici in un sistema complesso quale quello statunitense e in una personalità anomala come quella del capo dell’FBI. Certo, si vede che Hoover teneva rapporti segreti su determinati politici, ma mai dei suoi rapporti con la mafia. Si racconta la sua presunta omosessualità, ma non si approfondisce mai quel sistema corrotto e autoritario che fu l’FBI sotto la sua dirigenza. Insomma, Eastwood, con una operazione piuttosto sporca, si lava la coscienza mettendo in luce alcuni tratti oscuri della personalità di Hoover, ma solo quelli in fin dei conti minori e passabili, e soprattutto mai quelli che chiamerebbero in causa il sistema americano nel suo complesso. Quasi che Hoover fosse la classica scheggia impazzita di un sistema tutto sommato corretto. La solita retorica liberale, insomma.

 

Eastwood ci ha regalato, nel tempo, esempi di autentica poesia. Uomo capace di grande umanità, si è trovato chiaramente in difficoltà con la narrazione diretta della grande storia. E se lo squarcio familiare, i racconti fatti di quotidianità e di piccole e grandi emozioni trovano in lui un grande interprete, purtroppo non è così quando decide di narrare certe vicende politiche, come del resto era già avvenuto con Invictus, altra grande storia fallita del regista. Rientrando in stanchi cliché hollywoodiani, decide di raccontare la storia del grande uomo, dell’uomo forte, perdendo di vista il contesto, che in questi casi realizza l’opera. Decide oltretutto di affidare questo racconto all’interpretazione di Di Caprio che, per quanto effettivamente bravissimo, risulta assolutamente non credibile nei panni del vecchio poliziotto intrallazzone, dandogli una profondità che Hoover non aveva e fagocitando tutto il racconto con la sua figura. E’ il rischio in cui ricade sempre certo cinema americano, quello di scendere sempre e comunque a compromessi con lo star system, che garantisce grandi guadagni ma anche perdita di controllo sull’opera.  In sintesi, dunque, siamo in presenza di un fallimento, che neanche la tecnica filmica del regista può ribaltare. Un film che, visto con gli occhi critici di appassionati di storia, non possiamo che sconsigliare e catalogare come passo falso di un altrimenti grandissimo regista.