Riprendersi la strada
L’ipocrita campagna mediatica che è montata su imbeccata della questura di Torino dopo l’intervento di alcuni compagni in via Balbo, mostra molto chiaramente quanto sia vuota la retorica giustizialista sullo spaccio. Il riempirsi la bocca di lotta alla criminalità e alla droga da parte dello stuolo di benpensanti che affollano le redazioni dei principali quotidiani nazionali e locali, fa il paio con la complice tolleranza delle forze dell’ordine nei confronti de lo smercio che investe i quartieri popolari, strumento sempre efficace nel momento in cui si voglia trovare la scusa buona per “intervenire” o ricevere qualche dritta senza grandi sforzi. A questi, poi, bisognerà aggiungere quanti portano in palmo di mano i vari Saviano di turno, sempre pronti a incensare i loro eroi quando si parla di autori di best-sellers molto remunerativi, ma altrettanto tempestivi quando si tratta di infamare quanti non trovano il limite invalicabile alle loro azioni nella carta stampata. Insomma, quando si tratta di dare addosso allo spacciatore di turno, magari sulla spinta dell’onda securitaria o complici delle sempre più frequenti svolte reazionarie si da fiato alle trombe e la “piaga sociale” dello spaccio viene sbattuta in prima pagina come nemico numero uno. Quando invece è la “parte sbagliata” a dare due pizze allo spacciatore – qui è proprio il caso di dirlo – di turno, questo si trasforma miracolosamente in un “migrante”, vittima inconsapevole del controllo para-mafioso che domina incontrastato il territorio.
La differenza ricalca chiaramente la spaccatura tra quanti credono che basti chiacchierare e riempire pagine d’inchiostro per trattare con un fenomeno sociale endogeno alla gran parte delle periferie e i quartieri popolari – per ragioni sociali ben definite – e quanti, invece, proprio perché questi fenomeni li vivono sulla propria pelle decidono di rimboccarsi le maniche e magari sporcarsele.
Chi all’evenienza, oltre a combattere la militarizzazione dei quartieri, la loro progressiva gentrificazione e riduzione a non-luoghi esclusivamente funzionali o al consumo o all’emarginazione sociale, cerca di difendere praticamente i quartieri in cui vive. Chi crede che sia possibile replicare perpetuamente un modello di città, in tutto e per tutto funzionale allo status quo, e chi, invece, lavora in senso opposto. Difendere praticamente significa portare avanti il lavoro quotidiano nei quartieri popolari misurandosi con tutte – tutte – le contraddizioni che quel territorio presenta. La questione della diffusione e del consumo a livello di massa di sostanze è, in questo senso, una questione complessa e che necessita di un ragionamento articolato; tanto più se collocata nella prospettiva, mai banalizzabile, di un rivolgimento concreto. Ma è una questione all’ordine del giorno e che ha subito nel tempo una grossa mole di stratificazioni che la rendono ancora più complessa di quanto non fosse nei mitizzati anni ’70. Tuttavia, la differenza è proprio qui: non si può chiacchierare di modelli differenti di città e di alternative alla metropoli capitalista e non misurarsi praticamente con le contraddizioni insite nella metropoli stessa; e come per ogni altra battaglia intrapresa per strappare terreno a questo modello di città anche questa necessita di una conseguenza pratica. Ecco, i fatti di via Balbo ci dicono questo. Quanto sia ipocrita riempirsi la bocca di lotta alla criminalità con il proposito di ripulirsi la coscienza e magari vendere qualche misera copia in più ma, soprattutto, quanto sia inutile vaneggiare di quartieri aperti e solidali non tenendo conto che i buoni propositi devono essere mediati dalla realtà che, questa si, quasi mai è aperta e solidale. Bisogna, insomma, mettere in conto che alle parole seguono necessariamente i fatti. E che laddove a supporto delle prime mancano i secondi, queste si squagliano come neve al sole (a meno che non servano semplicemente a rendere più coloriti i propri profili social). Fa specie sentire di quanti “fanno le pulci” ai compagni accusandoli di adottare le stesse pratiche securitarie che si combattono quotidianamente o di quanti, con un profondo senso dell’ironia, contestano “l’iter” dell’allontanamento perché poco rispettoso di non si sa quale etichetta. Per quanto ci riguarda i compagni hanno fatto le loro valutazioni e una scelta conseguente. E tanto ci basta. La questione risiede nel nodo politico che stringe il consumo di massa di sostanze e la praticabilità della lotta nei quartieri popolari. Due elementi che finiscono inevitabilmente per scontrarsi. Bisognerebbe, sempre fuori da ogni retorica sugli anni ‘70, cercare di intendere questa contraddizione trovando misure attualizzabili. C’è da dire comunque, a onor del vero, che negli “anni Settanta” più di qualche cosa sulla questione l’avevano capita, e quella di difendere i propri quartieri era una pratica comune e trasversale ai compagni. Esercizio assodato e garanzia di riconoscibilità tra quanti soffrivano le stesse identiche contraddizioni di chi si ritrova a spacciare, ma non per questo sceglie di farlo; di quanti tra la prospettiva di una perenne precarietà, una quasi certa disoccupazione tra un lavoretto e un altro o quella di portare a casa un salario che sicuramente non basterà, scelgono comunque quest’ultime piuttosto che campare sulla vita degli stessi proletari che quei quartieri li vivono. Una pratica che bisognerà fare lo sforzo di frequentare più spesso, quella di riprendersi la strada, soprattutto quando all’orizzonte si addensano tempi di crisi.