visioni militant(i)

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louise-michel

Attenzione, la recensione contiene numerose anticipazioni sulla trama del film, per cui se non volete conoscere in anticipo alcuni passaggi dello stesso tornate a leggerla dopo averlo visto. L’importante, però, è che andiate presto a vederlo perché è un film riuscitissimo.

Prendete un’operaia non proprio avvenente, un killer strampalato e sovrappeso, un paranoide che vuole scrivere un libro sul complotto che ha portato all’abbattimento delle torre gemelle e una manciata di malati terminali. Agitate e miscelate bene e poi disponete il tutto in una regione operaia della Francia, la Picardia, col suo cielo perennemente lattiginoso e un panorama puntinato dallo squallore delle fabbriche in disuso, delle roulotte malmesse adibite a case e dei discount di periferia. Penserete che ci siano tutti gli elementi necessari ad allestire una commedia grottesca, popolata di personaggi deformi e simili ai protagonisti di certi fumetti d’oltralpe. Se poi ci aggiungete che l’operaia ha assoldato il killer per uccidere il padrone che ha dismesso la fabbrica in cui lavorava e che gli ha promesso di ripagarlo con la liquidazione sua e delle sue compagne, e che il killer altro non è che un mitomane squattrinato che cercherà di far fare a dei malati terminali il lavoro sporco, beh allora la commedia si tingerà inevitabilmente di quello humor nero a cui ci hanno abituato alcune delle più belle pellicole prodotte in Francia ed in Inghilterra negli ultimi anni. Ma in “Louise Michel” c’è di più, molto di più. Perché l’operaia brutta in realtà è un ex contadino analfabeta che ha scontato 15 anni di carcere per aver ucciso il banchiere che gli voleva sottrarre la fattoria a causa di un mutuo insoluto. E che una volta uscito di prigione è stato costretto a fingersi donna pur di riuscire a trovare un lavoro. Il killer, poi, altri non è che un ex bambina obesa affetta da problemi ormonali e costretta a reinventarsi come uomo costruendosi un mondo tutto suo in grado di accettarla.  Capite bene che in tal modo la commedia si fa surreale e si carica di una valenza allegorica che trascende la trama per farsi critica sociale. Perché la perdita d’identità dei due protagonisti allude allo smarrimento identitario in cui si dibatte la classe operaia europea, incapace di leggere (come Louise) la propria condizione e quindi incapace di capire come il mondo a cui si era abituata si è trasformato a seguito delle ristrutturazioni capitaliste. C’è una scena che ben rappresenta, a nostro avviso, questo smarrimento. La protagonista abita in un palazzo destinato ad essere abbattuto, ma il suo analfabetismo non le permette di leggere gli avvisi che preannunciano la demolizione e così verrà colta completamente di sorpresa quando vedrà il suo palazzo (il suo mondo, le sue certezze) implodergli alle spalle. E che dire poi del padrone che ha perso le sue fattezze “umane” direttamente riconoscibili per diventare quasi etereo, impersonale, nascosto da una lunga teoria di Spa, scatole cinesi e sigle incomprensibili. Gli autori sembrano indicare proprio nell’impossibilità di riconoscere il nemico di classe una delle cause della crisi d’identità dei lavoratori e lo sottolineano prima seguendo le peripezie rocambolesche dei due “giustizieri”. Che gradino dopo gradino arriveranno fino alla villa di chi, con una semplice telefonata, aveva deciso che le loro vite potevano essere buttate nel cesso perché gli investimenti non erano più profittevoli. E poi, una volta trionfata la “giustizia proletaria”, facendo tornare le cose “a posto” con i due protagonisti che si riappropriano finalmente dell’identità perduta. Un passaggio evidenziata nella sequenza in cui  i due tornano a chiamarsi col proprio nome, cosa che non avevano mai fatto per tutto il film. Ovviamente in questa “riconversione” non c’è nessun intento moralista ma la necessità di rimarcare la presa di coscienza di se e del proprio ruolo sociale. Insomma, se ci passate il gioco di parole: un film di lotta, di classe e sulla lotta di classe. Certo che se è questo quello che producono i cineasti transalpini più impegnati, non c’è da stupirsi poi che gli operai prendano in ostaggio i manager; mentre qui da noi non si va oltre le sfilate paciose. Però questo è un altro discorso. Per concludere non abbiamo problemi a confessare lo stupore per l’ultimo colpo di scena che ci regalano i registi prima dei titoli di coda, quando rivelano che i nomi dei due protagonisti sono in realtà un tributo ad una militante anarchica della Comune di Parigi, Louise Michele (1830-1905). Che spettacolo.