Tecniche di repressione e fabbricazione del nemico comune: la criminalizzazione del tifo organizzato

Tecniche di repressione e fabbricazione del nemico comune: la criminalizzazione del tifo organizzato

Le vicende del derby campano fra Salernitana e Nocerina confermano la lettura che da anni diamo sul fenomeno ultras come terreno di sperimentazione di nuove tecniche di controllo da estendere al resto della popolazione. Un vero laboratorio della repressione, che nel corso degli anni ha visto calibrare il proprio obiettivo dai meri strumenti di gestione di piazza a quelli legali inerenti alla repressione giudiziaria, all’ultimo step di questo percorso, quello della repressione ideologica, portata avanti attraverso la produzione di una retorica pervasiva volta alla creazione del nemico assoluto, del male sociale da estirpare. Questo male è oggi il tifo organizzato, nemico principale dei processi di valorizzazione economica dello spettacolo calcio. Se fino agli anni novanta una certa parte di profitto delle società proveniva ancora dai biglietti venduti al botteghino, da un ventennio a questa parte la quota economica derivante dallo stadio è venuta sempre meno, fino a diventare completamente irrilevante per la gestione finanziaria delle società di calcio. Il risultato è che una qualsiasi società potrebbe benissimo andare avanti economicamente senza tifosi allo stadio.

Questo processo si scontra però con le necessità del pacchetto televisivo/mediatico, che prevede la copertura delle partite in quanto eventi sociali, che dunque hanno necessariamente bisogno di una cornice di pubblico tale da giustificare lo spropositato interesse che determina la concentrazione mediatica su questo sport. Ogni partita deve essere descritta come *evento*, come qualcosa che catalizza l’attenzione, i bisogni e i desideri di una fascia eterogenea e ampia della popolazione. Per questo, non è possibile una partita di calcio senza pubblico, perché perderebbe quella qualifica di evento sociale che ne determina la giustificazione ideologica tale da promuovere e vendere il prodotto commerciale, che in ultima analisi ha ancora bisogno di spettatori paganti il pacchetto televisivo. Queste due opposte tendenze hanno determinato il percorso di espulsione del tifoso (concetto appartenente al mondo dello stadio), sostituito con quello di spettatore (inerente invece alla dinamica del teatro o del cinema), molto più gestibile in termini di controllo sociale sul fenomeno calcistico e allo stesso tempo facente perfettamente funzioni di pubblico appassionato, almeno nella descrizione mediatica della partita di calcio. La telecamera che inquadra di sfuggita la tribuna descrive migliaia di persone interessate all’evento. L’apparenza è salva e i profitti pure, e tutto questo senza il problema sociale del contropotere rappresentato dal tifo organizzato e dalle sue curve. 

Questi processi contrapposti vanno di pari passo con la progressiva esclusione delle fasce popolari dallo spettacolo calcistico. Attraverso la dinamica dei prezzi sempre più alti, ormai lo stadio è divenuto un fenomeno riservato alle classi più agiate, con prezzi dei settori popolari sempre più improponibili e che impediscono, di fatto, a una grande quota della popolazione di accedervi direttamente. Lo stadio va trasformandosi in un fenomeno di meta rappresentazione popolare: il “popolo” non va più allo stadio, ma questo continua ad essere descritto come “fatto popolare”, perché è quella la retorica fondamentale sulla quale giocare per vendere efficacemente il prodotto. Questo prodotto vede contestualmente una drastica riduzione dei prezzi per la diffusione televisiva dello stesso, determinando uno svuotamento degli stadi e una moltiplicazione degli abbonamenti televisivi.

Il processo di progressiva espulsione di quote di tifosi non completamente normalizzati alla dinamica televisiva/teatrale ogni tanto però subisce un arresto, una fermata imprevista, un piccolo contrattempo. Quelle volte cioè che i tifosi si riprendono, anche per pochi istanti, il gioco del calcio, e ne riaffermano la sovranità assoluta. Quello che noi sosteniamo è esattamente questa sovranità: il gioco del calcio non esiste senza i suoi tifosi, e a loro volta questi non avrebbero alcun potere senza la loro parte più avanzata e organizzata, costituita dai gruppi ultras. Ogni qualvolta questa sovranità viene riaffermata, anche tramite l’uso della forza, non possiamo che esserne contenti. Domenica, questa contraddizione è stata esplicitata dai tifosi della Nocerina, che giustamente hanno impedito lo svolgimento di una farsa preannunciata. Nonostante quei tifosi, e insieme a loro tutti i gruppi della curva, si siano tesserati, accettando di fatto il fenomeno repressivo scendendo a patti con lo Stato e le sue strutture di controllo, questo stesso Stato ha deciso di impedire comunque l’accesso dei tifosi al settore ospiti dello stadio della Salernitana. Derogando, di fatto, alla sua stessa legislazione speciale, di fatto già illegale.

All’ennesimo sopruso (peraltro incostituzionale), i tifosi hanno detto basta: se noi non entriamo, la partita non si gioca. In maniera sacrosanta (ripetiamo, sacrosanta), i tifosi hanno cercato di impedire alla squadra di scendere in campo, perché non può andare avanti lo spettacolo senza il suo principale protagonista. Volenti o nolenti, i giocatori hanno capito, perché i tifosi hanno saputo imporre la propria forza, bypassando la società e le televisioni e riuscendo a bloccare il giocattolo.

Una volta bloccato l’evento, tutto l’apparato mediatico, senza alcuna distinzione politica e/o territoriale, ha avviato il processo di criminalizzazione di quei tifosi, in una perversa sineddoche spostando l’accusa verso tutto il mondo del tifo organizzato. Quei tifosi sono divenuti criminali, mafiosi, violenti, nemico pubblico, ecc, e con loro, in un unico calderone, tutto il resto delle tifoserie organizzate. In realtà, si trattava solo di tifosi di calcio peraltro tesserati, e che dunque avevano di gran lunga accettato il controllo repressivo, proprio in ossequio a quella retorica che vedeva la tessera del tifoso valido strumento per controllare il tifo più acceso. Evidentemente, anche per dei tifosi tesserati, l’ennesima deroga a una legge illegale deve essere stata vissuta come la classica goccia che fa traboccare il vaso. E noi non possiamo che essere dalla loro parte. Perché siamo anche noi tifosi di calcio e frequentatori di quelle curve descritte come male assoluto dalla vasta platea liberale; perché cerchiamo, anche in questo piccolo e marginale episodio sociale, di dare una lettura di classe delle vicende sociali; perché cerchiamo di leggere gli strumenti repressivi del potere anche laddove si “testano” lontano da noi, per prevenirne la pericolosità quando saremo noi, e non i “violenti” tifosi, ad esserne interessati. Per tutte queste ragioni, dovremmo avere la capacità di analizzare questi eventi in opposizione alla lettura dominante del capitale, individuando quelle dinamiche che interessano la classe molto più da vicino di quanto possa sembrare. Oggi lo strumento principale utilizzato dalle forze repressive è la battaglia ideologica volta a descrivere chi non si adegua alle dinamiche di potere come “esterno” alla comunità sana. Siano tifosi o manifestanti, l’apparato mediatico descrive questi come esterni e contrapposti a una parte sana della comunità, che manifesta o tifa in modo pacifico (pacificato) le proprie volontà. Effettivamente, uno strumento vecchio, ma che viene oggi applicato in tutti gli ambiti della vita sociale, e con una violenza senza precedenti. Se in questo decennio chiunque si opponesse al capitale imperialista veniva descritto come terrorista, oggi lo scivolamento semantico riguarda ogni ambito della nostra vita che entra in collisione con le dinamiche di potere. Ed è per questo che noi oggi siamo con il tifo organizzato e contro il pubblico spettatore e addomesticato. Così come siamo per il conflitto sociale contro le logiche legalitarie promosse da una certa sinistra.