Riflessioni sugli indignados di tutta Europa/Parte terza

Riflessioni sugli indignados di tutta Europa/Parte terza

 

Una conclusione o una speranza

 

Nonostante quanto detto nei post precedenti, queste mobilitazioni che hanno caratterizzato la primavera europea e araba continuano a soffrire di evidenti limiti politici che non le fanno mai condizionare la realtà politica dei paesi. Eppure la durata e l’imponenza di certe manifestazioni sarebbero bastate, negli anni settanta, a far cadere governi o a promuovere riforme progressive di ben altro tenore. Anche gli apparenti cambiamenti nel Maghreb sono dovuti più ad una spinta internazionale in favore del cambiamento che alla forza esplicita dei movimenti. Più ad una dichiarazione di Obama che a trenta morti in una manifestazione. E infatti, nonostante in Egitto continuino a prodursi manifestazioni e proteste, il disinteresse internazionale le sta relegando ad una sostanziale inutilità, o quantomeno all’impossibilità di incidere alcunché. Perché tutto questo?

Il passo decisivo fra l’opposizione ai governi esistenti e la proposta di una società diversa è ciò che manca a tutte le mobilitazioni. Sia in quelle più moderate e riformiste, come quelle italiane, sia in quelle più radicali, come possono essere quelle spagnole (o londinesi, o francesi nello scorso autunno).

Il capitalismo, anche in queste proteste, continua a non avere alternative. Manca un progetto di società alternativo, ma soprattutto ne manca uno immediatamente chiaro e spendibile, ed è esattamente il motivo per cui nelle analisi per l’opinione pubblica le sintesi dei media risultano più efficaci delle analisi prodotte dai movimenti stessi, mettendogli in bocca parole e idee che nella realtà non hanno. Una serie di parole d’ordine semplici e immediate, capaci di essere comprese a tutte le fasce della popolazione, capaci di divenire sentire comune non solo per i militanti, ma anche per tutti coloro che assistono alle proteste ma non partecipano. A tutti i lavoratori, a tutta quella maggioranza (o minoranza) silenziosa che possa valutare l’alternativa senza doversi necessariamente leggere decine di saggi politici. La mobilitazione in sé non è l’alternativa. E’ uno strumento. Le assemblee popolari, il processo decisionale dal basso, non costituiscono già l’alternativa. Sono lo strumento (giusto) per proporre il cambiamento, ma se questo manca il metodo utilizzato diviene o inutile o fine a sé stesso. Non basta essere il soggetto del cambiamento per cambiare l’oggetto, cioè la realtà sociale.

Il cogniariato (sic), che è l’anima e il protagonista di queste manifestazioni, è portatore di un insieme di valori e di conoscenze che non sono patrimonio comune della popolazione, e soprattutto non lo sono dei lavoratori dipendenti, che fino a prova contraria rimangono i protagonisti del cambiamento anche se non si attivano politicamente in massa.  Hanno dei bisogni, delle necessità e degli stimoli che non possono essere generalizzati, ma soprattutto parlano un linguaggio che non viene inteso dalla gente. Queste manifestazioni continuano a parlare a sé stesse e a chi fa politica. Lo strumento, per quanto importante, dell’assemblea popolare (per fare un esempio), non risolverà il problema dei lavoro e della disoccupazione se all’interno di questi ritrovi non si parlerà di lavoro e di disoccupazione, di redistribuzione e di lotta politica a chi produce la precarietà. E soprattutto se non si metteranno in pratica queste discussioni con un’attività politica conseguente.

E poi, se tutto ciò che viene espresso non viene sistematizzato in un insieme coerente e generalizzabile di proposte politiche (e di facile comprensione), difficilmente potrà costruire quell’altro mondo possibile per il quale lottiamo. Insomma, bisogna iniziare, secondo noi, a immaginare l’alternativa, a renderla appetibile e direttamente realizzabile. Bisogna tornare a fare delle proposte, non solo a scagliarci contro questo modello di sviluppo (là dove avviene..). Ha poco senso, ormai, parlare ad esempio di beni comuni se manca il progetto concreto  di come renderli comuni. Di capire quale Stato, con quale governo, con quali proposte e scelte politiche verranno realizzati i nostri obiettivi. Far capire se siamo davvero rivoluzionari, o semplicemente dei riformisti radicali. Se cerchiamo di preparare un diverso modello di sviluppo sociale ed economico, o se semplicemente il nostro obiettivo è fungere da lobbie che cerca di condizionare la politica “ufficiale”. Sono tutte domande che ancora non hanno trovato una risposta, e questa incertezza sta determinando l’impasse di questi mesi e il continuo rincorrersi di movimenti che nascono e muoiono senza aver prodotto nella società quei cambiamenti che invece avrebbero la forza di produrre. Quanti movimenti abbiamo attraversato, quante onde ci avrebbero dovuto travolgere e invece stiamo messi come e peggio di prima (lavoratori, studenti, precari, immigrati, donne, omosessuali, ecc..)? Qualcosa, evidentemente, dobbiamo cambiare, e scaricare tutte le colpe su una realtà oggettiva che ti impedisce di influire politicamente non è l’atteggiamento che ci farà fare il salto di qualità. (3/fine.)