Il Covid, la “sinistra radicale” e Gagliardini

Il Covid, la “sinistra radicale” e Gagliardini

24 giugno 2020, e la ventisettesima giornata di un campionato appena ricominciato dopo il lockdown e in uno stadio Meazza completamente vuoto per via delle norme anti Covid si affrontano Inter e Sassuolo. Al diciottesimo del secondo tempo, mentre la squadra di casa è in vantaggio di una lunghezza, Lautaro Martinez entra in area dalla sinistra e passa il pallone indietro a Lukaku, l’attaccante belga tira di prima intenzione e sulla miracolosa respinta del portiere emiliano il pallone capita tra i piedi di Roberto Gagliardini. Il centrocampista nerazzurro si trova solo, a porta vuota, a poco più di un metro dalla rete e, incredibilmente, sbaglia, e manda il pallone contro la traversa e divorandosi un gol già fatto. Ecco, se dovessimo immaginarci una rappresentazione plastica della cosiddetta sinistra radicale italiana oggi, l’errore di Gagliardini ne sarebbe un esempio quasi perfetto.

La crisi epidemica, ancor di più di quella economica e sociale in cui siamo immersi, ha fatto emergere in maniera eclatante tutte le contraddizioni di un sistema dominato dal profitto. E lo ha fatto in una maniera assolutamente intellegibile anche da parte del cosiddetto “uomo della strada”, sicuramente molto di più di quanto non fosse accaduto 12 anni prima con la crisi dei mutui subprime. Questa volta non bisogna certo sapere cosa sia il capitale fittizio o essere addentro ai processi di finanziarizzazione dell’economia per rendersi conto di come, in un’epoca caratterizzata da un’abbondanza di merci e da una capacità produttiva senza precedenti nella storia dell’umanità, in tutti paesi, compresi quelli “avanzati”, si stanno manifestando in maniera paradossale tutta una serie di carenze e di penurie che sono costate la vita a migliaia di persone.

Nel giro di qualche settimana ci siamo tutti resi conto che mancavano gli ospedali, perché sia il centrodestra che il centrosinistra li avevano chiusi negli anni precedenti. E poi mancavano i posti letto, perché erano stati tagliati per risparmiare in ossequio alle prescrizioni neoliberiste. Mancavano le terapie intensive, mancavano i respiratori polmonari, mancavano addirittura le mascherine e i dispositivi di protezione individuali per gli operatori sanitari, che infatti si sono contagiati a migliaia e morti a centinaia. E poi non c’erano medici e infermieri a sufficienza, tanto da dover richiamare quelli in pensione. Mancavano i reagenti e mancavano pure i centri diagnostici per processare i tamponi.

Per evitare la diffusione del contagio ci è stato imposto di restare chiusi in casa, ma a decine di migliaia di famiglie mancava anche quella, oppure mancavano le stanze e i metri quadri sufficienti per evitare di vivere ammassati giorno e notte amplificando la diffusione del virus. E questo mentre star e starlette postavano video dalle loro ville per dire quant’era bello riscoprire come fare il pane a casa. E poi mancavano le scuole con le strutture adeguate, tanto da doverle chiudere per mesi costringendo gli studenti di ogni ordine e grado alla didattica a distanza. Ma in molti comuni mancava la rete e in molte famiglie non c’erano né tablet, né computer. E poi mancavano i mezzi di trasporto pubblici sufficienti a far spostare in sicurezza chi doveva comunque andare a lavorare e infine non c’erano luoghi di lavoro salubri in cui evitare di contagiarsi e soprattutto non c’era un sistema di protezione sociale che tutelasse davvero tutti quelli che perdevano il posto di lavoro. E dopo nove mesi tutto quello che mancava a marzo continua drammaticamente a mancare pure adesso.

Ma soprattutto, quello che è emerso in tutta la sua drammaticità, è che è mancata una forza politica che avesse la lucidità, la stazza e la credibilità per legare insieme tutte queste contraddizioni in una critica complessiva e generale al modello di società dominante. Come davvero poche volte accade nella storia, la critica sociale poteva finalmente spogliarsi dall’astrazione dei testi sacri e delle frasi scarlatte buone per ogni assemblea per diventare essa stessa un’arma, utile, se non a vincere, almeno a riconquistare un ruolo e un posto nella società; ad imporre un punto di vista originale. E invece quel gol a porta vuota lo abbiamo sbagliato, e proprio come Gagliardini siamo riusciti a prendere in pieno la traversa, permettendo alle classi dominanti di imporre la loro narrazione dei fatti. Ora, ad essere onesti, quel soggetto politico collettivo e complessivo a cui facevamo riferimento sopra manca in realtà già da qualche decennio e le ragioni sono talmente innumerevoli che anche a metterle in fila si farebbe fatica. Eppure c’è una dato, magari marginale, ma che in questi mesi si è manifestato in maniera prepotente e che forse aiuta a comprendere meglio le difficoltà in cui ci dibattiamo. Ci riferiamo al fatto che sull’onda dell’emergenza anche molti compagni siano finiti in un modo o nell’altro per introiettare il punto di vista del nemico di classe, fino ad assumere in tutto e per tutto un atteggiamento “compatibilista” che lascia davvero spiazzati e che li ha fatti diventare quasi più realisti del Re, o di Conte in questo caso.

Facciamo un esempio, quello più recente in ordine temporale e che sta animando il dibattito nazionale in vista dell’ennesimo DPCM previsto per lunedì. Di fronte alla prevedibilissima recrudescenza autunnale dei contagi alcuni presidenti di Regione hanno proposto la chiusura e la didattica a distanza per le scuole medie superiori allo scopo di decongestionare il trasporto pubblico. Le foto degli autobus strapieni e dell’assalto ai vagoni della metro stavano infatti creando agli sceriffi antiCovid più di qualche imbarazzo visto che sarebbe spettato a loro provvedere per tempo. Quindi, come abbiamo imparato bene in questi mesi, in assenza di una strategia ben definita si è pensato bene di procedere per anticipazioni: si butta li una sparata all’ansa, chiudiamo le scuole superiori, si testano le reazioni del pubblico e se lo share è alto ci si muove in quella direzione, altrimenti ci si orienta verso altre trovate estemporanee, ma che danno comunque alla collettività l’illusione che si stia facendo qualcosa. Nulla di nuovo sotto il sole, De Luca in questo modo c’ha preso il 70%.

Ciò che invece ci ha sorpreso, negativamente, è la reazione mostrata da una parte di quel pubblico che potremmo definire di estrema sinistra a fronte di questa ennesima boutade. Almeno a leggere i post e i commenti in rete alcune delle presunte avanguardie, se non politiche, quantomeno meno sociali e culturali di questo paese non solo sposano la necessità della chiusura delle scuole, parziale o totale che sia, ma addirittura auspicano l’implementazione oltre ogni misura dello smart working.

Ora, cari compagni “realisti”, cercheremo di dirlo nel modo più aulico e pacato possibile, perché forse non ne avete sufficiente contezza: la DAD era e resta una merda classista che penalizza soprattutto gli studenti proletari. E la didattica mista, quella con metà classe in presenza e l’altra metà abbandonata a casa davanti a un monitor per intenderci, se possibile, lo è ancora di più. La scuola non può essere considerata un parcheggio per minorenni e nemmeno può essere affrontata, come invece sembra facciate voi, come un problema puramente logistico, ma è il luogo in cui viene garantito il diritto all’istruzione. E sottolineiamo la parola “diritto”, perché chiuderla, in qualsiasi forma, equivale a negarlo. E poi, per dirla tutta fino in fondo, almeno per noi (e per voi?) la scuola non è, o almeno non dovrebbe essere, nemmeno un gigantesco imbuto per inculcare nozioni dall’alto verso il basso, ma un luogo in cui il sapere, soprattutto quello critico, si muove e si costruisce in maniera orizzontale, soprattutto attraverso la socialità tra pari. E fa davvero un po’ strano doverlo ribadire a degli interlocutori “di sinistra” o a degli ex leaderini studenteschi.

Per quanto concerne lo smartworking poi, chiedere di aumentarlo non significa altro che chiedere di aumentare lo sfruttamento, i ritmi di lavoro e il controllo per tutti quei lavoratori e quelle lavoratrici che in questi mesi hanno progressivamente visto diradarsi, ad esempio, la distinzione tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro. Un orizzonte, qiello dello smart working, che infatti è ampiamente condiviso dai padroni che in questo modo si ritroveranno con una classe lavoratrice ancora più individualizzata, ancora più atomizzata e ancora meno sindacalizzabile di quanto non sia già oggi. Una vera manna per i profitti, lavoratori su cui scaricare alcuni costi vivi (ad esempio la corrente, la connessione, ecc) mentre contemporaneamente si risparmia in infrastrutture e capitale fisso.

A quasi un anno dall’inizio della pandemia non si può più tollerare che ci si muova come se ci trovassimo di fronte a un’emergenza inaspettata. Il piano del ragionamento va completamente ribaltato, invece di preoccuparci di come negare il diritto all’istruzione o aumentare lo sfruttamento per risolvere ai governanti il problema dei trasporti, ad esempio, dovremmo lottare, come governati, per imporre l’aumento delle corse e l’assunzione di nuovi autisti. Se non si può lavorare perché c’è il rischio contagio, allora che si resti a casa, ma in malattia e a salario pieno. Se, come ormai abbiamo ampiamente compreso, l’unico modo per convivere con il virus è il distanziamento fisico (e non quello sociale, concetto orribile che lasciamo ai padroni visto che il linguaggio non è mai neutro) allora ci vogliono più aule, più professori, più ospedali, più medici e infermieri, più ricercatori, più case popolari, più mezzi pubblici, ecc ecc. E se non è adesso il momento di pretendere tutto questo, allora quando? E se non lo fanno i compagni, allora a che servono?