Quello che non capisce la sinistra à la Pisapia

Quello che non capisce la sinistra à la Pisapia

 

Il centrosinistra è un’opzione morta, sepolta dal liberismo ordoliberale, dalla globalizzazione, dalla crisi economica. Quello che non capisce la sinistra “a sinistra” del Pd è che l’attuale modello di sviluppo determina inevitabilmente la fine di ogni possibile riformismo, se per riformismo intendiamo una politica volta alla redistribuzione parziale dei redditi nella società. Il centrosinistra, che vorrebbe/dovrebbe incarnare l’opzione politica post-socialdemocratica, non può attuarsi non per mancanza di coraggio, forza, coerenza o capacità dei diversi rappresentanti, ma per mancanza di condizioni oggettive. E’ per questa fondamentale ragione che fuori dal partito unico liberista (forze “democratiche” e “popolari” nei vari Stati europei) oggi c’è solo il populismo, anch’esso nelle sue varie articolazioni e inclinazioni. Questa la ragione per cui è impossibile una “scissione” del Pd: perché anche fossero animati dalle migliori intenzioni (e non lo sono affatto), c’è l’irrilevanza elettorale che certifica un’impossibilità politica: quella di redistribuire i redditi. Per attuare una redistribuzione dei redditi bisognerebbe controllare i movimenti dei capitali; tornare a controllare la leva fiscale in grado di redistribuire coattivamente i redditi; imporre norme che comprimano in qualche modo o forma le possibilità indefinite di profitto; instaurare un regime di regole economiche volto alla regolamentazione del “libero mercato”; ri-nazionalizzare la dimensione statuale, tornando a (pre)occuparsi dei ceti subalterni e delle possibilità di integrarli in un discorso nazionale, e non solo lasciarli sopravvivere ai fini della riproduzione capitalistica; re-introdurre forme di economia “mista” in cui lo Stato abbia un protagonismo economico pari a quello delle forze produttive private. Come evidente, servirebbe una rivoluzione, non solo culturale all’interno delle ideologie politiche mainstream presenti oggi in Occidente, ma soprattutto economico-sociale, che imponga alle forze del mercato un loro contenimento coatto entro regole fissate non dai mercati finanziari ma dalla politica. Tutto questo è nelle intenzioni dei vari Pisapia, Cuperlo, Bersani, Vendola, Fassina, Civati, eccetera? Ma non scherziamo. Per questi tristi esponenti di un mondo collassato su se stesso, è l’intento morale di attenuare le storture del liberismo economico a guidarli nelle loro alchimie politiciste. Ma se questo andava bene (e non andava bene) ai tempi del keynesismo galoppante e della socialdemocrazia realizzata, oggi è completamente irrealistico anche solo immaginarlo. Le migliori intenzioni(?) dei “riformisti” del XXI secolo si scontrano con un principio di realtà che non è aggirabile. E in assenza di movimenti comunisti in grado di imporre un ritorno alla politica, ribadiamo, fuori dal partito unico liberista c’è solo lo spettro ambivalente del populismo: questo ovviamente almeno nell’Occidente capitalistico. L’unica possibilità di riattivare un discorso riformista senza passare per la serie ossimorica di riforme rivoluzionarie di cui sopra, sarebbe il ritorno a una crescita economica a ritmi cinesi (ritmi che però decrescono costantemente da un quinquennio, non a caso) in tutto l’Occidente. Ma questo è ancora meno probabile, visto che la sterminata massa di profitti immobilizzati potrebbe essere valorizzata unicamente in uno scontro di vaste proporzioni tra capitali concorrenti. La tendenza alla guerra, che è un’evidenza del capitalismo attuale, prende oggi le forme di una guerra tecnologica a bassissima intensità di capitale umano, perché non è una guerra tra capitalismi concorrenti, ma tra un capitale egemonico transnazionale e forme sorpassate e dominate di capitalismi colonizzati. Per avere una guerra che distrugga capitali (soprattutto umani) in eccesso, lo scontro dovrebbe essere tra pari, cioè tra eserciti di massa e in carne e ossa, e non solo tra droni e i loro obiettivi logistici. E riproporrebbe la contraddizione di cui sopra: il ritorno alla leva obbligatoria sarebbe una forma di keynesismo (militare) inconcepibile per il mondo attuale, visto che imporrebbe il ritorno a uno Stato che torna a spendere in deficit per sostenere opere di ri-nazionalizzazione della popolazione che imporrebbero di fatto strategie di contenimento della libertà dei capitali di muoversi nel mondo globalizzato. E’ un cul de sac da cui il capitalismo non uscirà se non attraverso eventi rivoluzionari. Poi, certo, niente è determinato in partenza, ma senza la deflagrazione di alcune di queste contraddizioni nessuna crescita economica può pensarsi concretamente (crescita reale, non l’1-2% basato sul mercantilismo ordoliberale). Con buona pace dei Pisapia di turno.