Piazza Fontana, la strage è di Stato 3/4

Piazza Fontana, la strage è di Stato 3/4

rmrossi.jpg

Proseguiamo con ricostruzione degli avvenimenti che portarono alla strage di Piazza Fontana. Ci siamo resi conto in corso d’opera che più andavamo avanti e più difficile diventava riuscire a comprire la narrazione in poche cartelle. per questo motivo con il quarto capitolo questo contributo diverrà un dossier in pdf liberamente scaricabile. Il primo capitolo lo potete leggere qui e il secondo qui.

3/Tu vuò fà l’americano

La rivolta antifascista del 1960, che impedì lo svolgimento del congresso del MSI e fece cadere il governo Tambroni, segnò anche la definitiva sconfitta della “strategia dell’inserimento” propugnata dall’allora segretario missino Arturo Michelini. I neofascisti, frastornati dai fatti di Genova e costretti nuovamente  nell’angolo dalla protesta popolare trovano allora un po’ di respiro e di spazio di manovra sul terreno del contrasto ai movimenti di decolonizzazione. In Italia come baluardo dell’intransigenza nazionalista in Alto Adige, contro l’irredentismo sudtirolese che nei primi anni ’60 ha scelto la strada del terrorismo aperto. Numerosi neofascisti, tra cui il segretario del MSI veronese, Tazio Poltronieri, sono impegnati, in rapporto organico  con gli apparati di intelligence repubblicani, in attività di controinsorgenza che si spingeranno fino all’esecuzione di attentati in Austria. In quel laboratorio, del resto, saranno sperimentate tecniche e metodi che caratterizzeranno poi vent’anni di controguerriglia, dalla strategia della tensione alla liquidazione delle Brigate Rosse. Sullo scenario mediterraneo, invece, la guerra di liberazione in Algeria segnerà una svolta decisiva per la destra radicale italiana. Sia pure con motivazioni e sfumature diverse gli ambienti missini e quelli extraparlamentari si schierano a favore di un colonialismo europeo che sta esalando i suoi ultimi respiri. I parà francesi divengono i nuovi eroi della pubblicistica neofascista e altrettanta enfasi viene usata quando si parla dell’OAS, l’Organizzazione Armata Segreta, un gruppo semiclandestino francese composto in gran parte da ex ufficiali dei paracadutisti che si oppongono all’indipendenza algerina con il terrorismo e gli attentati. Principale referente italiano della rete di solidarietà che funzionerà anche come retrovia per i miliziani dell’OAS sarà il gruppo Ordine Nuovo di Pino Rauti, anche se non mancheranno di dare il loro apporto i giovani militanti del MSI. Così, mentre gli ordinovisti si impegnano in una complessa attività di importazione di latitanti e di esportazione di esplosivi, proprio un brillante dirigente giovanile missino, come Guido Giannettini, si aggiorna sulle più avanzate conquiste teoriche della guerra controrivoluzionaria. Sarà proprio questa “ginnastica rivoluzionaria” che contribuirà a consolidare i rapporti personali e le reti operative che indirizzeranno l’attività del neofascismo italiano negli anni a venire. I quadri dell’OAS finiscono infatti per costituire il nocciolo duro di un centro operativo internazionale di rigorosa ortodossia atlantica i cui terminali italiani si incarnano nei vertici dei due principali gruppi extraparlamentari: Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale. Così, mentre ai militanti di ON verrà indicato di entrare nei Nuclei di Difesa dello Stato (di cui parleremo più avanti) agli avanguardisti verrà invece affidato il compito di infiltrarsi nei gruppi di sinistra. Si legga a tal proposito quanto riporta una nota dell’Ufficio Affari Riservati: verso la fine del 1964 l’ANG fu sciolta per riformarsi dopo brevissimo tempo in maniera totalmente diversa: alcuni elementi di sicura fede, appartenenti alla vecchia ANG furono avvicinati cautamente e singolarmente e fu loro proposto, nelle forme che il caso richiedeva, se volevano entrare a far parte di un’organizzazione segreta, composte da persone disposte a qualsiasi sacrificio per il trionfo del loro ideale e decise a tutto pur di contrastare il passo alla politica in atto. (1)

I primi anni sessanta sono anche quelli in cui si sedimenta questa “nuova” cultura politica del neofascismo italiano che non fa più mistero di voler collaborare con l’ex nemico nordamericano. Nel 1961 Julius Evola pubblica un nuovo libro di “indirizzo”. L’eloquente titolo del testo, Cavalcare la tigre, riprende un vecchio detto cinese secondo il quale l’unico modo per sconfiggere una tigre è montarle in groppa e domarla, guidando a proprio piacimento gli istinti omicidi del felino. Si tratta di un evidente allegoria che identifica la tigre col campo liberal-capitalista dapprima avversato ma con cui, ora, è inevitabile una alleanza in chiave anticomunista. Nel dibattito che si apre all’interno dell’area “nazionalrivoluzionaria” dopo l’enunciazione della nuova parola d’ordine, comincia ad emergere la figura di un “evoliano di seconda generazione” che avrà un peso fondamentale negli anni successivi: Franco Giorgio Freda. Nel 1963 l’allora ventiduenne Freda esce dal MSI per dar vita alle Edizioni di AR, la principale casa editrice italiana di dichiarata fede neonazista.

In quegli anni la situazione internazionale sta cambiando repentinamente restituendo ai neofascisti un ruolo fondamentale alle trame della politica italiana. La liquidazione dell’esperienza kruscioviana in URSS, nel 1964, viene letta dagli ambienti atlantici come una forma esplicita di restaurazione stalinista e di chiusura della prima ventata di disgelo. Un meccanismo di chiusura simmetrico viene percepito dal Cremlino con l’assassinio di Kennedy che, per i sovietici, non è affatto l’opera di un folle isolato ma l’epilogo di un complotto dell’ala più reazionaria dei servizi segreti statunitensi che percepiva la distensione come un tradimento. In Italia la politica, tra l’altro solo moderatamente riformista, del centrosinistra suscita comunque timori incontrollati nel ventre molle di una borghesia che si dimostra molto più arretrata del ceto politico che la rappresenta. Settori sociali e istituzionale ben più ampi di quelli che si esprimono con il voto a destra sono intenzionati a porre fine ad un’esperienza che giudicano pericolosa.

Tutte queste manovre trovano concretezza nell’estate del 1964, quando l’Italia si risveglia sul baratro del colpo di stato. E’ il cosiddetto “Piano Solo”, un’operazione che, se portata a termine, avrebbe consegnato il potere nelle mani del generale dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo attraverso l’occupazione di tutti i “centri nevralgici” del Paese e la deportazione dei dirigenti dei partiti di sinistra e dei sindacalisti nella base segreta di Capo Marrargiu, in Sardegna. Il 2 giugno, in occasione della tradizionale parata militare De Lorenzo fa sfilare un numero di militari ben superiore alla norma e il 14 giugno, per la festa dell’Arma, la Brigata Meccanizzata sfoggia una dotazione di armi impressionante. I militari fatti arrivare per la parata vengono trattenuti con delle scuse fino alla fine di luglio nella capitale, dove verranno fatti confluire anche reparti di paracadutisti e gruppi di sottoufficiali. I dirigenti della sinistra fiutano il pericolo tanto che molti di loro iniziano a dormire fuori casa e in luoghi sempre diversi. Pietro Nenni, allora segretario del PSI, nei suoi diari di quei giorni parla chiaramente del “tintinnar di sciabole” alludendo neanche troppo velatamente all’imminente pericolo di un golpe. La situazione rischia di precipitare durante il mese di luglio. Il 25 giugno, rimasto senza maggioranza,il governo Moro è costretto alle dimissioni e il 15 luglio il presidente della repubblica Antonio Segni, in forte contrapposizione con Moro, durante le consultazioni per il nuovo governo convoca, fuori da ogni rituale democratico,  il generale De Lorenzo e prospetta la possibilità di un governo tecnico sostenuto dai militari. Solo la definitiva normalizzazione del PSI, che rinuncerà pubblicamente a portare avanti le riforme più “radicali”, farà rientrare definitivamente il piano. Il tentativo di colpo di stato divenne noto all’opinione pubblica solo nel 1967, grazie ad uno scoop dell’Espresso, e De Lorenzo, che nel frattempo era divenuto Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, fu costretto a dimettersi ripiegando sulla carriera politica nel MSI di cui divenne parlamentare.

La svolta per il neofascismo italiano si consuma, però, nel 1965. L’ennesima sconfitta congressuale di Almirante spinge fuori dal MSI decine di militanti “intransigenti” che vanno ad ingrossare le fila delle organizzazioni extraparlamentari, soprattutto quelle di Ordine Nuovo. Questa “trasfusione” di neofascisti avviene proprio mentre gli ambienti filo atlantici decidono di scendere in campo contro il centrosinistra e la “sovversione montante” reindirizzando le strutture clandestine di sicurezza atlantica (esistenti fin dal primo dopoguerra) non più contro una ipotetica quanto irrealistica invasione sovietica, ma in chiave antidemocratica e antioperaia. Gli addetti ai lavori indicano una data ed un evento come l’atto di nascita di quella che più tardi verrà definita “la strategia della tensione”, ed è il convegno sulla “guerra rivoluzionaria” organizzato dall’Istituto Alberto Pollio che si tiene dal 3 al 5 maggio presso l’Hotel parco dei principi a Roma. Il convegno sancisce la nascita di un’alleanza tra settori conservatori, borghesi, militari e neofascisti in funzione anticomunista, il cosiddetto “partot del golpe”. I lavori vengono aperti dal giornalista ed ex esponente dei FAR (Fasci di Azione Rivoluzionaria) Gianfranco Finaldi. Al suo fianco siede Enrico de Bocard, un altro esponente dei FAR. La discussione ruota intorno a tre temi, illustrati dai tre relatori principali: De Bocard, Edgardo Beltrametti e Guido Giannettini. Proprio la relazione di quest’ultimo illustra la varietà delle tecniche nella condotta della guerra rivoluzionaria: “preparazione, propaganda, infiltrazione” e si conclude con un accorato invito alla prassi: <Se sapremo finalmente aprire gli occhi, aprire gli occhi sulla guerra rivoluzionaria, se sapremo agire in maniera adeguata, allora, soltanto allora, potremmo riprenderci e vincere. Ma attenzione, è tardi. Molto tardi. “il est moins conq” dice in suo recente libro Suzanne labin. Siamo arrivati agli ultimi conque minuti>. (2) Arricchiscono il dibattito ex combattenti della RSI come Pino Rauti e Giorgio Pisanò, mentre assistono come uditori una ventina di giovani, inclusi Stefano Delle Chiaie, leader di AN, e il suo pupillo Mario Merlino. In pochi mesi l’editore Volpe pubblica gli atti del convegno che entusiasmano il capo di Stato Maggiore della Difesa generale Giuseppe Aloja; letteralmente conquistato da Giannettini, Aloja gli commissiona articoli per le riviste delle forze armate e lo recluta nel SID, il servizio segreto militare. L’agente “Z” Giannettini, nella veste anfibia di collaboratore del SID e uomo della destra neonazista” si occuperà con speciale cura dell’infiltrazione e del controllo della sinistra extraparlamentare. Il libro di Giannettini, così caro al generale Aloja, si conclude in questo modo: Limitarsi a vincere una battaglia senza voler concludere definitivamente la guerra, nel nostro caso la guerra rivoluzionaria, costituirebbe un grave errore. Equivarrebbe cioè ad attendere che la vinca il nemico. E per vincere la guerra rivoluzionaria è necessario passare una buona volta all’offensiva. (3)

Nel giro di pochi mesi le cose cominciano a muoversi seguendo le direttive indicate nel convegno. I primi a mobilitarsi sono i Nuclei di Difesa dello Stato, un’organizzazione atlantica nata nei primi anni ’60 e simile a Gladio, suddivisa in 36 legioni, ognuna composta da una cinquantina di elementi, militari e civili. Tra il settembre e l’ottobre del 1966 lettere firmate dai Nuclei arrivano per posta ad oltre 200 ufficiali dell’Esercito. Anni dopo si accerterà che gli indirizzi di molte di queste lettere furono scritti di