Oltre Roma disfatta: intervista a Vezio De Lucia

Oltre Roma disfatta: intervista a Vezio De Lucia

 

Dopo aver recensito e presentato il libro “Roma disfatta”, ci siamo accorti che nel testo vengono lambiti dei temi che però non trovano sufficiente sviluppo nel dialogo a due con Francesco Erbani. Abbiamo così chiesto a Vezio De Lucia di approfondire alcune di queste tematiche.

1)      Nel libro Roma disfatta si individua il degrado urbanistico come causa dei problemi strutturali della città. Concordiamo, anche se con una precisazione che nel libro sembra trovare poco spazio: la frantumazione della città non deriva (solo) dalle scelte poco responsabili di urbanisti e pianificatori, ma da un preciso modello di sviluppo economico-territoriale rigidamente liberista. In realtà la città dis-urbanizzata sembra nascere per calcolo e non per caso: nelle periferie romane trova concreta realizzazione l’intento liberista di governare il territorio senza intervento pubblico, lasciando agire da sé gli operatori economici liberati da qualsiasi vincolo collettivo. La periferia assomiglia in questo senso ad una “zona economica speciale” sottratta al controllo pubblico per decisione politica più che per mancato controllo. Concordi anche tu su questo nesso tra disastro urbanistico ed economia liberista?

L’urbanistica non è una disciplina indipendente, è una conseguenza della politica. Se quindi in Italia e a Roma comandano la politica e l’economia del neoliberismo, l’urbanistica capitolina non può che avere la medesima ispirazione. Ma questo non basta a spiegare l’abominevole qualità della vita nella capitale che non ha confronti con altre grandi città europee, anch’esse in regime di economia neoliberista. La spiegazione sta nel fatto che a Roma agiscono anche fattori specifici della politica locale, tradizionalmente asservita agli interessi fondiari e dell’edilizia. La novità degli ultimi decenni sta nel fatto che, mentre in passato la dipendenza dal cemento e dall’asfalto era una caratteristica precipua della politica di destra, più recentemente (se vogliamo essere precisi da circa trent’anni) anche il centro sinistra e la sinistra sono stati a mano a mano incantati dalle sirene della speculazione, in una spirale trasformistica che è all’origine della crisi dei partiti tradizionali. Alla fine è stato il centro sinistra a farsi promotore dei nuovi disgraziati istituti giuridici – i diritti edificatori, la compensazione e simili – che hanno presieduto alla formazione dell’ultimo piano regolatore, il peggiore della storia di Roma capitale, e alla conseguente sterminata, inaudita espansione a bassa densità. Devo subito aggiungere che un segnale inquietante del cedimento della politica e della cultura di sinistra si può leggere nell’accondiscendenza all’abusivismo che, giustificata negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, con il passare del tempo è diventata una delle cause dell’anomalia e della corruzione dell’urbanistica di Roma e del Lazio.

 

2)      Roma è vittima di una questione abitativa senza pari in Italia e forse in Europa. E’ la città dell’emergenza abitativa, delle case sfitte, delle “50.000 famiglie” senza casa o in estrema difficoltà a pagare il mutuo o l’affitto. Quel poco di edilizia residenziale pubblica che nel corso degli anni è stato costruito è stato più il frutto della decennale battaglia dei movimenti di lotta per la casa che da veri intenti progressisti delle varie amministrazioni, senza nulla togliere a giunte virtuose come quella di Petroselli. Come giudichi il protagonismo sociale di questi movimenti, dalla casa alla salvaguardia del paesaggio e dei territori, e che ruolo possono avere queste organizzazioni nel futuro della città? Come fare per recepire strutturalmente le istanze di cui si fanno portavoce?

 

La politica e le istituzioni romane (non solo romane) hanno di fatto accantonato il problema della casa. È cambiata anche la lingua, non si parla più di edilizia residenziale pubblica o di case popolari. Come se ci si vergognasse. Più in generale è sistematicamente rimosso l’aggettivo “pubblico”, si tende a cancellare la dimensione pubblica della città. In materia di politica abitativa, il campo è dominato dalla cosiddetta edilizia sociale, o social housing, mai univocamente definita, quasi sempre una pratica truffaldina a favore della speculazione privata. Ancora peggio è per la legge 167 del 1962 – un caposaldo della legislazione riformatrice degli anni Sessanta e Settanta, del “compromesso socialdemocratico” della seconda metà del secolo scorso – che a Roma, era partita bene ma è finita in uno scandalo vergognoso del quale finalmente parlano anche i giornali. Non posso che dire bene di associazioni, comitati e movimenti in prima linea nella difesa del territorio e dei diritti collettivi. Anche se l’assenza di riferimenti politici condivisi comporta frammentazioni, e talvolta cedimenti opportunistici.

 

3)      La politica romana sembrerebbe voler aggirare le difficoltà cittadine attraverso l’organizzazione di grandi eventi o grandi opere in grado, potenzialmente, di risollevare le sorti quantomeno economiche della metropoli. Eppure, gli esempi passati sembrano confermare il contrario: i grandi eventi producono solo grandi speculazioni che peggiorano, invece di migliorare, il paesaggio urbano, soprattutto delle periferie, lasciando peraltro dietro di sé montagne di debito saldate dalla collettività. Qual è allora il meccanismo speculativo che si cela dietro i grandi eventi o le grandi opere? Come valutare, ad esempio, la costruzione del nuovo stadio della Roma, che nel progetto occupa il 20% delle cubature previste, mentre l’80% riguarderà le solite cattedrali destinate al commercio e a case che rimarranno inevitabilmente sfitte? Oppure, altra questione di estrema attualità, come giudicare le possibili Olimpiadi del 2024 dal punto di vista urbanistico e dello sviluppo cittadino delle periferie?

 

Anche per le Olimpiadi, i grandi eventi e le grandi opere vale quanto detto prima per l’urbanistica in generale. Soprattutto pesa la particolare attitudine della politica locale a utilizzare ogni circostanza per valorizzare gli interessi fondiari. Come fu in occasione delle Olimpiadi del 1960, di cui si ricordano solo e sempre gli apprezzamenti planetari per la scoperta della grande bellezza di Roma e la meraviglia della vittoria di Abebe Bikila. Nessuno mai ricorda che le Olimpiadi del 1960 furono sapientemente sfruttate per ribaltare le linee di sviluppo di Roma in direzione opposta a quanto veniva proposto dal piano regolatore allora in formazione. L’ideologia, se posso dire così, di quel piano (adottato nel 1962 e approvato nel 1965, concepito in particolare dall’urbanista Luigi Piccinato) era di bloccare l’espansione in direzione Sud e Ovest, concentrando invece lo sviluppo nel settore orientale dove si pensava di formare il nuovo centro della città (il futuro Sdo). La via Olimpica, che doveva collegare le preesistenti attrezzature sportive del Foro Italico con i nuovi impianti realizzati all’Eur, servì invece soprattutto a rendere accessibili le aree a Ovest del Vaticano, aprendo nuovi grandi opportunità alla speculazione edilizia. A Sud fu favorito il rilancio dell’Eur che divenne il quartiere più moderno e meglio attrezzato di Roma. Si contraddisse insomma, e vistosamente, il piano regolatore prima ancora che fosse approvato e si fece capire che chi conta davvero se ne infischia delle decisioni formali dell’urbanistica. Com’è nel caso del nuovo stadio a Tor di Valle, approvato dall’amministrazione Marino, in contrasto assoluto con la disciplina urbanistica, un esempio da manuale di urbanistica contrattata. Lo sport come grimaldello per favorire la speculazione fondiaria.