Le letture di classe del Corriere della Sera

Le letture di classe del Corriere della Sera

 

Velocemente e rimestando nel torbido, ci avviciniamo alla fatidica data delle elezioni, che se non altro avrà il pregio di porre fine questa campagna elettorale che segna il passaggio dalla seconda repubblica alla politica post-contemporanea, talmente moderna che ha completato il giro storico da cui era iniziata. Il prossimo parlamento non rappresenterà solo la visione del mondo della borghesia nelle sue varie sfaccettature, ma sarà composta da un unico ceto sociale – l’alta borghesia imprenditoriale e/o professionale – e da una dialettica interna a due varietà di destra politica: quella conservatrice liberale del PD-PDL e quella reazionaria liberista di Monti (che, peraltro, governeranno insieme). Dopo più di un secolo torniamo al parlamento quale comitato d’affari della borghesia, in cui un gruppo più o meno folto di notabili dei ceti privilegiati della società chiacchierano su quali architetture istituzionali dare allo sviluppo del mercato.

Ci fa strano notare, invece, che un lettura molto simile alla nostra è emersa oggi sul Corriere della Sera, ad opera di Giuseppe de Rita. Il sociologo riesce in maniera stupefacente a sintetizzare alcuni passaggi che potremmo tranquillamente far nostri. Ed è proprio traendo le conseguenze di questi ragionamenti che decidiamo anche questa volta di fermarci un turno e di non votare nessuno dei partiti candidati a queste elezioni. Ma vediamo piuttosto cosa dice De Rita, in alcuni passaggi davvero illuminanti del suo articolo, a cominciare dal titolo: Una campagna elettorale di vertice che non rispecchia i conflitti sociali.

“..Il gioco delle parti [della politica] basta a se stesso, quasi fosse uno spettacolo, senza alcun collegamento con la dialettica delle diverse componenti sociali. Non rispecchia in altre parole nessuna tensione e/o conflitto: di classe operaia, di mondo contadino, di borghesia professionale, di ceto medio impiegatizio, di terziario più o meno avanzato; assistiamo quindi a una battaglia essenzialmente mediatica sovrapposta ad un’anonima marmellata sociale.”

“…Allora il conflitto è morto?[…]Basta percorrere l’Italia per constatare quanta rabbia circoli un po’ dappertutto; quante volte essa esploda anche senza preavviso; quanto sia facile incontrarla nelle piazze.[…]Ma perché allora la rabbia non diventa conflitto e il conflitto non diventa componente centrale della dialettica politica ed elettorale? La risposta è duplice. In primo luogo perché oggi il conflitto è innescato dall’alto, da politiche di governo “indiscutibili” che lasciano ai cittadini solo spazi ristretti di adattamento e di sopravvivenza.[…]

“…Ma, ad essere onesti, l’incombente processo regressivo non è solo colpa delle manovre carismatiche della politica; in esso gioca anche il declino di responsabilità delle strutture di rappresentanza. Sono queste che per decenni hanno politicamente incanalato disagi, rabbia, antagonismi in più ampie forme di conflitto, gestendole nel confronto con i partiti e con i poteri pubblici…”

Qui il link

Diciamo che, con altre parole e magari da un punto di vista opposto a quello di De Rita, avremmo potuto scrivere le stesse cose e di certo pensarle. Perché in realtà è quello che andiamo dicendo da anni. La politica “istituzionale”(e in massima parte, come vediamo, la campagna elettorale, che ne costituisce la sublimazione), forma un mondo ormai a parte rispetto alle dinamiche sociali presenti nel mondo del lavoro. Queste non riescono più a trovare delle rappresentanze politiche. A volte, esplodono in disagi sociali, tutt’al più sindacali, o di estrema protesta umana rispetto a vicende che possono essere un licenziamento, un peggioramento delle condizioni di produzione, un innalzamento del livello di vita o una deturpazione ambientale. Ma mai si fanno proposta politica. Mai cioè passano “all’attacco”, non attendendo l’ennesima ristrutturazione aziendale per protestare. Se ci si fa caso, le migliaia di proteste di lavoratori di questi anni hanno tutte un filo comune, e cioè sono esclusivamente proteste “sindacali” (anche laddove non è presente un sindacato strutturato), difensive, “arroccanti”, che nascono nell’urgenza umana del momento e che scompaiono così come sono nate. Se va bene, si salva il salvabile (cioè il posto di lavoro e lo stipendio), senza mai farsi proposta politica. Senza trovare, cioè, quella rappresentanza di interessi del mondo del lavoro che sola può portare ad un cambiamento della situazione sociale. Una protesta sociale, anche fortissima, che punta solo a difendere ciò che si ha, prepara già il terreno alla sua prossima sconfitta, semmai prolungando per qualche tempo la sua agonia. E’ per questo che il ruolo del sindacato, importante se collegato a una soggettività politica, perde ogni sua funzione “conflittuale” e progressista se slegato dalla dinamica politica. Ed è anche per questo che bisognerebbe opporsi a ogni tentativo di sostituzione “sindacale” della politica, come recentemente ha tentato di fare la FIOM sostituendo una sinistra sociale che manca nel quadro politico con una “sinistra sindacale”.

Qualche commento diceva che l’importante su cui concentrarsi è cosa fare dal giorno dopo il voto, al di là che si vada o meno a votare. Siamo d’accordo. Noi da questo blog parliamo ai militanti politici, di certo non abbiamo la forza e la presunzione di parlare ai “lavoratori”, o alla “cittadinanza”, o a qualsivoglia pezzo di società largo. Siamo però consapevoli che un discorso di rappresentanza e di strategia politica vada affrontato prima di tutto fra i militanti dei movimenti. Ed è proprio in questo senso che cerchiamo di spiegare l’inutilità di un voto dato a un parlamento tornato allo stato notabiliare, espressione unicamente di un ceto unico e privilegiato e che nulla ha da spartire rispetto alle dinamiche che interessano la società. Oltretutto, questo comitato d’affari ha anche perso, col tempo, quasi tutto il suo potere normativo: oggi il potere risiede altrove, in luoghi dove la politica non conta più nulla e dove le decisioni vengono semmai imposte alle varie articolazioni nazionali della produzione capitalistica. In questo quadro, e di fronte alla campagna elettorale più insulsa della storia della politica italiana, ha ancora senso farci distrarre dal gioco organizzato dai padroni per permettere di reiterare una retorica democratica nei fatti completamente abbandonata?

Qualcuno, citando Lenin, ribatte proponendo quantomeno il diritto di tribuna per le opposizioni sociali, la possibilità cioè di giocare su tutti i campi, non escludendoci da soli dal piano “istituzionale”, in cui far sentire la nostra voce. Siamo d’accordo, e proprio per questo non siamo astensionisti per principio, ma siamo astensionisti oggi, in questa determinata realtà dei fatti. Manca però la soggettività di queste opposizioni sociali. Se esistesse questa soggettività organizzata, questa rappresentanza politica delle opposizioni sociali, avrebbe senso portare il conflitto anche nelle aule rappresentative. Il problema è che non c’è, ed è il problema che dovremmo affrontare sin da subito, e sicuramente dal giorno dopo il voto.