Le due società

Le due società

Nel 1977 l’italianista (e allora operaista) Alberto Asor Rosa così titolava un suo saggio sulla crisi politica italiana. Quella frattura, di diversa qualità e ai tempi ancora trattenuta da una miriade di fattori sociali e politici, da qualche anno – complice la crisi economica – è deflagrata dissolvendo tutto un mondo della politica ancora legato – anche in forma critica – al mondo pre-crisi. Chi crede che “la sinistra” (qualsiasi senso voglia darsi a questa logora parola) abbia contato qualcosa nel risultato referendario, sta reiterando le ragioni dell’incomprensione del mondo attuale. E per fortuna, che non ha contato nulla. Altrimenti staremmo commentando l’ennesima sconfitta. E’ stato però un voto di classe, perfettamente sovrapponibile alle elezioni comunali della scorsa estate. Sta tutta qui la tragedia (politica) dei nostri tempi. Se “classe” e “sinistra” avessero solamente preso strade divergenti, il problema non sarebbe neanche tanto grave. Hanno invece preso strade contraddittorie: le scelte della classe sono in contrapposizione alle scelte della sinistra. Bisognerebbe aprire una vasta parentesi su cosa significhi classe oggi, ma non è questo il punto ora. Il punto è che le scelte (elettorali, ma non solo, anche “valoriali”) di milioni di nuovi diseredati sono oggi in diretta contrapposizione con le sinistre “ufficiali”. Ovviamente non parliamo del Pd, che non è definibile come “partito di sinistra”. Parliamo di quelle propaggini elettorali che stanno alla sua sinistra. Il problema è che fuori da queste escrescenze elettoralistiche, completamente esautorate di ogni credibilità già da molti anni, non c’è alternativa di sinistra che vada al di là dei recinti minoritari del gruppettismo movimentista. Lo diciamo a malincuore, visto che la critica è soprattutto un’autocritica, ma la scomparsa della sinistra ufficiale non ci ha portato in dote margini di consenso percettibili. Ci ha trascinato nell’irrilevanza, nella testimonianza, e ormai nell’acredine. Dovremmo ringraziare il caso se in Italia abbiamo un movimento populista come il 5 Stelle. Altrimenti, avremmo a che fare con una destra nazionalista con percentuali ben più preoccupanti. Avremmo cioè uno scenario francese, dove la destra nazionalista fonda la sua forza elettorale nelle periferie operaie un tempo bacino di voti del Pcf. Ma questo non risolve il nodo della nostra inutilità. Sotto palazzo Chigi la sera del NO eravamo forse 150 compagni: non c’era nessuna rappresentanza di quei partiti che pure avrebbero dovuto tentare una qualche forma di visibilità, quantomeno mediatica. Ma questo è il minimo. Non c’era nessuna “cittadinanza” interessata alla questione. Tutti davanti Mentana o in fibrillazione social? Può darsi, ma questo, lungi dal rinvigorirci, descrive una sconfitta, non una nostra “resistenza” militante.

Perché nel 2013, in una situazione tutto sommato analoga, migliaia di persone di accalcarono tra Montecitorio e Quirinale per impedire il golpe bianco (poi riuscito) della rielezione di Napolitano, mentre la scorsa notte nessuna cittadinanza ha sentito il dovere di concretizzare la vittoria referendaria con un moto di partecipazione civile? Quella che scambiammo per “spontaneità” civica fu al contrario il risultato di un’indicazione politica del Movimento 5 Stelle.

La scorsa notte è mancata un’indicazione politica di massa, in grado di egemonizzare il fronte del NO, di attestarsi i meriti della vittoria attraverso la partecipazione attiva di un elettorato passivo. In assenza del M5S, quello stesso popolo che non ha remore verso ipotetici “salti nel buio” – almeno elettorali – poi non traduce questa disponibilità in mobilitazione. Dobbiamo farci i conti con questa cosa, e farli seriamente, non consolandoci a vicenda. Noi, come sinistra di classe, non abbiamo la forza di indicare e organizzare percorsi davvero di massa. Chi detiene oggi questa forza, come il movimento grillino, non lo fa per scelta politica: le masse si possono agitare ma possono sfuggire di mano, e proprio in quell’aprile del 2013 ce ne fu la dimostrazione plateale, con Grillo ritiratosi in buon ordine sul più bello, dileguando un notevole potenziale di agibilità politica conquistatosi sul campo. Il populismo può agitare lo spettro dell’ingovernabilità, ma non organizzare un’alternativa di sistema. Al dunque, rimane confinato dentro quel sistema, come grillo parlante di una borghesia in crisi d’immaginario.

Da questo NO allora bisogna provare a ripartire. Dalle periferie, ad esempio, da cui ancora una volta sale fortissimo il bisogno di rottura politica.

Ricalcando i risultati delle comunali, nei due municipi centrali (I e II) prevale il renzismo; negli altri 13 della sterminata periferia, vince a valanga il NO. Costruendo programmi sociali capaci di dare voce a questo rifiuto, dandogli profondità organizzativa e politica: bisogna tentare. Un compito immane, che non si risolve in pochi passaggi, anche fossero azzeccati. Ma di certo stiamo marciando verso un mondo che non ci appartiene più, dove le istanze progressive dell’emancipazione delle classi subalterne trovano voce solo nella forma mistificata dei diversi populismi. E’ ora di prendere sul serio le richieste di questa massa impoverita, affrontando quei nodi che abbiamo espunto dal novero dei concetti tollerati nella sinistra: resistenza alla globalizzazione delle merci, dei capitali, degli esseri umani; lotta per una sovranità popolare che abbatta il transnazionalismo dei mercati finanziari e il cosmopolitismo delle classi ricche; che abbia il coraggio di ripudiare il racconto ideologico di un falso internazionalismo fatto di “cervelli in fuga”, di “Erasmus”, di “libertà di movimento”, che poi si traduce materialmente solo nella libertà dei capitali di travalicare le frontiere delle politica; recupero della sovranità fiscale dello Stato, che è la leva per impedire materialmente la delocalizzazione dei fattori produttivi; abolizione dell’obbligo del pareggio di bilancio in Costituzione; e molti altri eccetera su cui i “populismi” fondano la loro forza elettorale. Non passerà solo da una serie di convincenti posizioni politiche questo “ritorno alla politica”, certamente. Ma anche da qui bisogna ritrovare quell’umiltà di ascoltare, e non solo di condannare, le scelte popolari che in questi anni ci stanno indicando una direzione e un terreno di lotta.