La rivoluzione in agenda

La rivoluzione in agenda

Circa un centinaio d’anni fa un rivoluzionario col pizzetto spiegò al mondo che in politica il tempo non scivola mai via in maniera lineare e che ci sono anse del fiume della storia in cui esso sembra rallentare a tal punto che gli anni finiscono col sembrare giorni e poi ci sono rapide in cui invece sono i giorni a sembrare anni. Questa lezione, come tante altre del resto, sembrerebbe essere stata completamente rimossa soprattutto da chi, di quel rivoluzionario, in un modo o nell’altro ha continuato a sentirsi un epigono. Scriviamo questo perché ci pare che un po’ tutti a sinistra si apprestino ad affrontare la prossima scadenza elettorale come se nell’ultimo anno non fosse accaduto praticamente nulla, o quasi. Eppure il governo “tecnico” è stato tutto fuorché una parentesi destinata a chiudersi con elezioni del 24 febbraio. Il golpe bianco che ha portato Mario Monti al governo, e che era stato anticipato dalla lettera/diktat della BCE, ha impresso una accelerazione formidabile al processo di costruzione del polo imperialista europeo imponendo con il fiscal compact (che entrerà in vigore tra 3 giorni) la federalizzazione delle politiche di bilancio dando così seguito, dopo oltre un decennio, a quella del potere monetario. Questo ha determinato un primo fatto con cui, che lo si voglia o meno, bisognerà fare i conti: il perimetro delle politiche economiche entro cui potrà muoversi una qualsiasi coalizione di governo non verrà più stabilito a Roma (nel caso dell’Italia) ma a Bruxelles. Una cessione di sovranità che svuota almeno in parte i parlamenti nazionali del loro significato (se mai ce l’abbiano avuto) e che ridefinisce, seconda questione con cui fare i conti, le funzioni e i compiti dello stato: sempre meno luogo del compromesso sociale e della costruzione del consenso, sempre più macchina di controllo delle classi subalterne. Si tratta ovviamente di un processo asimmetrico ed ancora in fieri che procede sotto gli urti della crisi economica e in cui alcuni stati, come la Germania, stanno giocando un ruolo di leadership mentre altri, quelli della periferia mediterranea, vengono di fatto commissariati. Nel nostro paese proprio come avvenne con il passaggio del trattato di Maastricht si è così aperta una fase di transizione politica dai contorni ancora incerti a cui fa eco una crisi di credibilità forse senza precedenti delle istituzioni borghesi. Una disaffezione di cui l’astensionismo è solo l’epifenomeno e che, inutile nascondercelo, non riesce a trovare altrove alcuna sponda politica. Proprio in virtù di queste sintetiche riflessioni confessiamo che ci risulta quantomeno paradossale questo continuo affannarsi da parte di certa sinistra nel tentare di rientrare dalla finestra nelle stanze di un potere che ormai è altrove. Come abbiamo provato a spiegare più volte su questo blog non siamo astensionisti per principio, crediamo che partecipare o meno ad una competizione elettorale sia per i comunisti un problema di ordine tattico e che sarebbe stupido non utilizzare aprioristicamente tutti gli spazi che il nemico ti lascia. Ma, ci chiediamo, è questo il caso? La costruzione dell’organizzazione politica passa forse per l’ennesima e scontata sconfitta elettorale? Per un voto di pura testimonianza? Oppure per la restituzione di uno scranno parlamentare ai vari Diliberto, Ferrero e compagnia cantante?