Gli stanchi rituali di una certa sinistra

Gli stanchi rituali di una certa sinistra

Sabato scorso si è svolto a Roma il No Monti Day, la manifestazione che avrebbe voluto portare in piazza la rabbia sociale contro il governo Monti e le sue politiche recessive e antipopolari. Una manifestazione a cui ha aderito praticamente tutta la sinistra di partito, sindacale e di movimento, tutto il mondo politico che si muove a sinistra del PD. Viste le odierne capacità di mobilitazione, è stata sicuramente una manifestazione partecipata e di massa. Il dato su cui riflettere è però la dimostrazione lampante dell’inutilità di mobilitazioni organizzate in questo modo. Per quanto partecipata, colorata, “unitaria” e condivisa, la manifestazione ha esplicitato tutti i limiti storici della sinistra italiana, proprio quei limiti che le rendono impossibile rappresentare politicamente il conflitto latente al governo Monti.

Anzitutto, sin dal suo lancio mesi prima, la manifestazione recava con se il convitato di pietra del 15 ottobre del 2011. A prescindere dai contenuti politici, ogni riunione di preparazione pensava prima di tutto a disinnescare ogni possibile riedizione di quella giornata. Servizi d’ordine, riunioni organizzative, conciliaboli volti esclusivamente a reprimere ogni forma di dissenso che non si esprimesse unicamente in forma verbale. Questa paura ha portato gli stessi organizzatori a tenere sotto tono praticamente fino all’ultimo la manifestazione, evitando di caricarla, di pomparla, proprio per impedire che altri potessero servirsi della giornata per esprimere forme di dissenso diverse da quelle immaginate dagli organizzatori. Evitare di pensare a forme efficaci di conflitto è già il primo segno di un fallimento che in troppi continuano ancora a far finta di non vedere.

Altro grande problema della manifestazione, e di manifestazioni di questo tipo, è più profondo e più difficile da inquadrare. C’è un confine sottile quanto imprescindibile fra la manifestazione che porta in piazza il conflitto, espressione di una mobilitazione diffusa, e lo stanco ritualismo di cortei che rappresentano solo se stessi. La manifestazione di sabato scorso appartiene a questo secondo tipo di mobilitazioni, esattamente come gli sciopericchi finto-generali convocati dalla CGIL in questi ultimi anni, più attenta a reprimere ogni forma di generalizzazione dello sciopero che a potenziare lo sciopero stesso.

La manifestazione politica nasce come momento di rappresentanza del conflitto. La lotta di classe, diffusa nelle città e nei luoghi di lavoro, sospendeva se stessa e si manifestava pubblicamente. Esprimeva il bisogno di contarsi pubblicamente, di contare chi appoggiava il conflitto, di manifestarsi come forza politica reale. Insomma, era il momento pubblico di una serie di lotte che avvenivano nei territori, tanto geografici quanto lavorativi. Era una parte del percorso di lotta, in cui si portavano politicamente al centro le ragioni di ogni singola vertenza periferica.

Quello avvenuto al No Monti Day è l’esatto opposto. In piazza non c’era alcun conflitto da rappresentare, alcuna lotta da pubblicizzare, alcun movimento “reale”. Certo, c’erano tanti lavoratori in lotta, c’erano tanti piccoli pezzetti di vertenze reali, alcuni sindacati conflittuali con presenza concreta nel mondo del lavoro in piazza, non stiamo confutando questo, ma non esisteva alcuna rappresentanza politica di queste lotte. Lo striscione d’apertura del corteo, con Ferrando, Bernocchi, Agnoletto, Ferrero e via dicendo, stava li a dimostrarlo. Un corteo politico che non aveva nessun rappresentante politico nelle lotte reali, ma che pretendeva di rappresentarle solo per il fatto di aver convocato o aderito al corteo stesso. L’assenza di qualsiasi rappresentazione del conflitto politico può produrre un corteo partecipato, ma inevitabilmente innocuo, funzionale, fisiologico. Paradossalmente, serve più a dimostrare la democraticità del potere, che a condizionare il potere stesso.

Cortei di questo tipo, insomma, o avvengono alla fine, o nel mentre, di un percorso di opposizione politica reale, o non hanno senso. Oppure, se si punta tutto sulla capacità mobilitante della manifestazione politica come “scintilla” che possa incendiare la prateria, si cerca di intercettare e politicizzare quel conflitto che si espresse il 14 dicembre 2010 o il 15 ottobre 2011, incanalandolo, dandogli degli sbocchi politici, gestendolo senza per questo reprimerlo. Ma se il primo obiettivo del corteo era quello di disinnescare ogni forma di reale conflittualità, e se l’espressione politica di quel corteo erano i soliti dirigenti di partiti inesistenti, quale possibilità poteva darsi che quel corteo funzionasse? E’ servito a dire che l’opposizione a Monti, potenzialmente, è numerosa, ma quei numeri sono inservibili se vengono usati come stanchi rituali del solito corteo d’ottobre, del solito sciopero CGIL di novembre, e nel solito vuoto politico da gennaio in poi.

Ogni anno viene fatto un corteo del genere. Ogni anno, in assenza di qualsiasi forma di generalizzazione del conflitto, di sua espressione politica, cade nel dimenticatoio il giorno dopo. Non è un caso che molti quotidiani, il giorno dopo, non hanno neanche dato la notizia, e che quei pochi che l’hanno pubblicata l’abbiano fatto nelle anonime pagine centrali, vicino alla cronaca. Perché, più che un evento politico, proprio di quello si trattava: di un fatto di cronaca, di un rituale, come il sangue di san Gennaro o il Palio di Siena. Tutti sanno che a ottobre ci sarà l’innocuo corteo della sinistra, ne prendono atto a passano avanti, sperando in qualcosa di nuovo che non arriva mai.