Geraldina Colotti: Scrivono per noi…
Con l’articolo che vi proponiamo oggi, a firma di Geraldina Colotti, vogliamo inaugurare una nuova rubrica del nostro blog; “Scrivono per noi…” è un tentativo di focalizzare l’attenzione – con cadenza domenicale e bisettimanale – su alcuni temi che riteniamo meritino un contributo più ampio rispetto a quello che quotidianamente offriamo con i nostri post. Non un modo per “stare sul pezzo”, dunque, ma un momento di riflessione su tematiche che crediamo piene di spunti di riflessione e che hanno l’ambizione di continuare e ampliare i dibattiti che già animano questo blog.
Dicevamo, si comincia con l’articolo della Colotti; a lei che ha seguito negli ultimi mesi le vicende della Freedom Flotilla per la redazione de Il Manifesto, abbiamo chiesto una panoramica che ricostruisca fatti e antefatti oltre ad indicare una lettura in prospettiva .
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Sulla Freedom Flotilla 2
Dal 4 luglio scorso, per due settimane, le agenzie stampa di mezzo mondo battono il nome di una piccola imbarcazione da diporto francese, la Dignité al-Karama: l’unica della Freedom Flotilla 2 ad aver preso il largo e ad essersi diretta verso Gaza, su un totale di 10 navi. Le altre sono ferme nei porti del Pireo, in Grecia, controllate a vista dalla guardia costiera: bloccate da controlli burocratici o sabotate come la Juliano, che porta il nome di Juliano Mer-Khamis, l’attore israeliano ucciso a Gaza nell’aprile scorso. Per l’Italia è presente la Stefano Chiarini, che ricorda il giornalista del manifesto prematuramente scomparso nel 2007. Fermi anche due cargo con 500 tonnellate di aiuti umanitari, raccolti dalla solidarietà internazionale. L’equipaggio della nave statunitense Audacity of Hope ha provato a salpare, ma è stato bloccato dalla polizia greca. Il sessantenne capitano John Klusmer è finito in carcere. Ci ha provato anche la Louise Michel, ma è stata accerchiata e ha dovuto desistere. Intanto, dagli Usa all’Europa, gli attivisti manifestano davanti alle ambasciate greche e israeliane. Manifestazioni di sostegno si svolgono anche in Cisgiordania, a Gaza, in Egitto, in Tunisia… L’equipaggio della nave Guernica occupa l’ambasciata spagnola ad Atene, issa la bandiera palestinese e si “barrica” dentro, chiedendo al governo di Madrid di far pressione su quello greco.
La Dignité – partita dalla Corsica e ormeggiata a Salamina – riesce a svignarsela nella notte, dichiara una rotta diversa e guadagna le acque internazionali. Porta un saluto agli insorti egiziani e poi cambia tragitto, dirigendosi verso Gaza. In meno di un anno, i solidali francesi hanno raccolto 700.000 euro e acquistato due imbarcazioni. A bordo, 3 uomini dell’equipaggio e 8 passeggeri, tra cui un corrispondente di Libération Quentin Girard, il leader della sinistra anticapitalista Olivier Besancenot, l’eurodeputata ecologista Nicole Kill-Nielsen, Anick Coupé, la portavoce dell’Unione sindacati Solidaire, Nabil Ennabi, presidente delle Comunità musulmane in Francia, e la giornalista israeliana Amira Hass, del quotidiano Haaretz.
Per fermare quel “pulcino del mare” di 15 metri ormai giunto a 80 miglia dall’obiettivo, vengono impiegate 3 navi da guerra provviste di missili, sette battelli con commando a bordo e 150 soldati israeliani. Una prova di forza consentita dal sostegno dei governi europei, da quello del Quartetto e del segretario generale dell’Onu: una strategia per “estendere il blocco di Gaza all’insieme del Mediterraneo” e consentire a Israele di scorazzare nelle acque internazionali in tutta impunità, denunciano le organizzazioni pro-palestinesi.
Una catena di complicità che vede in primo piano il governo greco, messo alla corda dai movimenti di protesta contro la crisi, e interessato a far bella figura con i donatori internazionali. In contemporanea, le pressioni di Tel Aviv riescono a neutralizzare anche un’altra iniziativa internazionale, “Benvenuti in Palestina”. Oltre 600 persone, dirette nella West Bank per portare solidarietà, subiscono pressioni e impedimenti negli aeroporti di partenza, quelle che riescono a partire, vengono bloccate all’aeroporto Ben Gurion ed espulse.
Sull’edizione in ebraico di Haaretz, il primo ministro Benjamin Netanyahu “ringrazia i leader mondiali che hanno lavorato contro la ‘provocazione della flottiglia’: Stati uniti, Europa, il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon e il primo ministro greco Papandreou”.
Finisce così l’avventura della Freedom Flotilla 2, organizzata per rompere il blocco imposto da Israele alla striscia di Gaza da quattro anni, e portare sostegno alla popolazione stremata (un milione e mezzo di persone). Una spedizione denominata anche Stay Human: per ricordare l’attivista Vittorio Arrigoni, ucciso a Gaza da un gruppo “salafita”, che concludeva le sue corrispondenze con l’invito a “restare umani”. Una provocazione inaccettabile per il governo israeliano, che ha mosso mari e monti per fermarla.
L’anno prima – il 31 maggio 2010 – i suoi commando avevano ucciso nove militanti turchi che viaggiavano sulla nave Mavi Marmara della Freedom Flotilla 1. Subito dopo, la Turchia aveva aperto un’inchiesta, preteso scuse ufficiali, risarcimenti e la fine del blocco economico a Gaza. In seguito, però, una telefonata del presidente Usa Barack Obama al primo ministro turco, Recep Tayyp Erdogan – vincitore delle ultime elezioni legislative – aveva convinto Ankara a non inviare altre navi verso Gaza.
Anche Tel Aviv aveva messo in scena tre commissioni d’inchiesta, con l’intento di assolversi da ogni responsabilità negli assassinii. In un rapporto di trecento pagine, la commissione Tirkel aveva assolto i commando e considerato l’operazione perfettamente legittima: “Questo prova che Israele è uno stato di diritto che rispetta le norme internazionali”, aveva dichiarato il ministro della difesa Ehud Barak. “Forse abbiamo fatto degli errori, ma abbiamo agito per legittima difesa”, avevano affermato i militari. E, all’annuncio della seconda Flottiglia, avevano diffuso dei video per pubblicizzare la bontà dei loro metodi: contro gli attivisti, questa volta avrebbero utilizzato cannoni ad acqua anziché proiettili veri. Un’altra gigantesca operazione mediatica.
Anche la campagna di solidarietà internazionale, però, ha avuto grande eco sui mezzi di informazione. Le organizzazioni che hanno promosso la spedizione stilano bilanci positivi, la considerano una vittoria politica e pensano alle prossime mosse: “La legittimità e il diritto sono dalla nostra parte. Spezzeremo l’assedio di Gaza”, scrivono gli attivisti francesi di “Un bateau français pour Gaza” .
La riflessione prende corpo anche in Italia, sul sito della Freedom Flotilla e nelle sedi dei movimenti che, anche con la Carovana di solidarietà per costruire un media-center a Gaza, continuano a impegnarsi per la Palestina. Un impegno frustrante e tutto in salita, confrontato a un apparato politico, economico, mediatico che consente a Israele l’impunità in Palestina e l’assoluzione in Occidente.
Neanche l’evidente svolta a destra di Tel Aviv ha scalfito il sostegno dei governi europei. Netanyahu e i suoi colleghi di estrema destra come il ministro degli esteri Avigdor Leberman mostrano apertamente il volto disumano delle loro politiche, eppure lo status internazionale di Israele è ben solido. Per l’Unione europea, resta un partner preferenziale, incluso nell’Organisation for Economic Cooperation and Development (Oecd) in quanto portatore di una economia stabile e di una moneta forte. Per gli Stati uniti, rimane il solito gendarme affidabile.
Come invertire la rotta? Torna utile, a questo proposito la riflessione di Ilan Pappé nel piccolissimo libro Israele/Palestina. La retorica della coesistenza, curato da Nicola Perugini e edito da Nottetempo a soli 3 euro. Pappé, uno dei nuovi storici israeliani, ricorda verità scomode, impresentabili per l’intellettuale ben inserito di casa nostra. Interroga la frustrazione dei movimenti. Il messaggio di giustizia degli attivisti per la pace in Palestina – dice – è largamente accettato nel mondo (anche negli Usa). Perché allora “Israele continua incontrastato le proprie politiche di espropriazione?” E individua tre paradossi.
Il primo è costituito dallo “sconcertante divario tra ciò che la media delle persone in Occidente pensa di Israele e ciò che gli ebrei israeliani pensano di se stessi”. La maggior parte degli israeliani – afferma Pappé – è convinta di vivere in una democrazia modello e pensa che il conflitto arabo-israeliano sia terminato o marginale, comunque riconducibile a tensioni di natura globale inerenti il fronte della “guerra al terrorismo” di cui Israele fa parte.
Il secondo paradosso mette il dito su una piaga: il modo in cui – anche in buona parte dei movimenti – si è soliti vivere il proprio “attivismo”, guardando cioè al fenomeno e non alle cause che lo determinano. Così, “mentre alcune specifiche politiche di Israele vengono aspramente criticate su scala internazionale, la natura stessa del regime di Israele e l’ideologia che genera queste politiche non sono affatto oggetto delle critiche del movimento di solidarietà”. Criticare l’ideologia colonialista di Israele, significa esporsi all’accusa dell’antisemitismo, come statuisce lo stesso Parlamento europeo, che considera qualsiasi dimostrazione contro il sionismo una forma di antisemitismo. Immaginate – continua lo storico – se ai tempi dell’apartheid in Sudafrica aveste potuto protestare solo contro i massacri di Soweto e contro le singole atrocità del governo sudafricano, ma non contro l’apartheid e le cause che lo producevano.E infatti, dice Pappé, l’ultimo paradosso è che Israele è riuscita a costruire una narrazione “complessa” su una storia “di mero colonialismo ed espropriazione”.
Paradossi che hanno aperto la strada a un’”ortodossia della pace” fuorviante e inefficace, messa recentemente in discussione da un nuovo movimento di solidarietà internazionale. Attivisti animati da buone intenzioni immaginano due stati pienamente sovrani che vivano uno accanto all’altro e riflettano di comune accordo a come risolvere il problema dei profughi e decidano il futuro della città di Gerusalemme. Nella realtà, invece, così come i bantustan non hanno messo fine all’apartheid in Sudafrica, la creazione di uno stato palestinese fatto di bantustan, conseguente a un ritiro israeliano da parti della Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza, “non fermerà l’espropriazione e la pulizia etnica iniziata nel 1948”.
Un cambio di paradigma si è invece evidenziato con l’emergere del movimento Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds), in seguito all’appello della società civile palestinese, dentro e fuori dalla Palestina e anche in Israele. Un movimento che si ispira al modello messo in campo contro l’apartheid in Sudafrica, chiama in causa la natura del regime israeliano e prende a riferimento l’intera “Palestina storica”. Questa nuova prospettiva attinge anche alle idee di fondo avanzate negli anni ’70 da organizzazioni come il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp) o il Fronte Democratico per la liberazione della Palestina (Fdlp) – ignorate da chi sostiene gli accordi di Oslo del 1993 in nome della Realpolitik -, e le aggiorna alla situazione presente.
Una visione che tiene conto dell’espropriazione della Palestina in toto, non nelle sue singole componenti isolate. E dunque, non immagina uno stato ebraico vicino a due bantustan, a loro volta divisi in dodici bantustan tra Cisgiordania e ghetto di Gaza, senza continuità territoriale tra loro e con la piccola municipalità di Ramallah trasformata in governo. Piuttosto, guarda all’orizzonte di uno stato unico, con uguali diritti per tutti, e senza connotazioni “di razza”.
Per questo, alla retorica del “processo di pace” e alla sua infondatezza, dimostrata dalla discrepanza tra i vari tentativi di soluzione del conflitto e la realtà di ciò che è accaduto sul territorio, occorre sostituire un concreto processo di decolonizzazione. All’industria della “coesistenza” – quel falso dialogo tra i due popoli finanziato soprattutto dagli Usa e dalla Ue -, bisogna contrapporre la solidarietà vera e un meccanismo di riconciliazione che riconosca e ripari i torti del passato: “Gli ebrei israeliani – scrive Pappé – devono proteggere l’esistenza dei palestinesi minacciati quotidianamente dal loro governo e dal loro esercito, ancor prima di far germogliare il progetto di coesistenza”.
Un cambio di paradigma per nuove rotte da tracciare. Beffando le “guardie costiere”.
Geraldina Colotti