Di ritorno da Vicenza

Di ritorno da Vicenza

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Scriviamo questo post di ritorno da Vicenza dov’eravamo tornati per cercare di capire come evolvesse la lotta contro l’ampliamento della base Dal Molin. Premettiamo che quanto scriviamo non è certo frutto di un’accurata conoscenza delle dinamiche vicentine quanto di una percezione tutta soggettiva maturata annusando l’aria che si respirava nel corteo, ci scuserete quindi per alcune approssimazioni. Innanzitutto i numeri, a occhio non sembrava ci fossero i tredicimila manifestanti riportati oggi dal Manifesto ma tant’è, anche prendendo per buona questa cifra, stiamo comunque parlando di una contrazione significativa della partecipazione popolare, soprattutto alla luce del fatto che, come ci diceva qualche compagno, questo doveva essere il canto del cigno prima dell’inizio dei lavori in settembre.

Verrebbe dunque da chiedersi cos’è successo in questi mesi, soprattutto a livello nazionale. Perché se è vero che si marciava fianco a fianco con “cittadini” comuni, incrociando visi di gente che solitamente non ti trovi vicina nei cortei (ed è il segno questo di un radicamento importante nel tessuto cittadino) è anche vero che di facce, di altre facce, ne mancavano tante. Mancavano, per intenderci, quelle del cosiddetto “popolo della sinistra”: lavoratori, militanti, migranti. E questa cosa aveva una ricaduta simbolica nelle bandiere che sventolavano nell’afa della piana vicentina. Certo, ce n’era qualcuna del PRC, qualcun’altra del PCL, ma sembravano totalmente fuori contesto rispetto a quelle del comitato, a quelle della Pace o addirittura a quelle del Tibet o della repubblica veneta (?!). Ma soprattutto non c’erano le bandiere che solitamente fanno da cornice quasi ad ogni appuntamento antiUSA, chessò: la bandiera cubana, quella yugoslava, quella curda, quella rossa col Che oppure quella, semplicemente, rossa.

E qui arriviamo al punto. La sensazione (torniamo a ripetere tutta soggettiva) è che la questione della base sia stata volutamente declinata in termini ambientali, territoriali, democratico/pacifisti ma non in termini antimperialisti. E questo, se da una parte ha garantito un ritorno territoriale per una sorta di effetto NIMBY, dall’altra ha forse depotenziato una lotta che, invece, dovrebbe essere preminentemente antimperialista. Perché, almeno così noi la pensiamo, prima ancora che una fonte di disastro territoriale ed ambientale le basi militari sono soprattutto l’articolazione di un disegno di dominio planetario volto al saccheggio delle risorse oltre che una feroce ipoteca su ogni possibilità di autodeterminazione dei popoli. Se si ha ben chiaro questo, una lotta, anche se perdente nell’immediato, può sedimentare consapevolezza internazionalista, coscienza e conflitto; altrimenti si corre il rischio che una volta iniziati i lavori di ampliamento ognuno ritorni, come nel gioco dell’oca, al proprio punto di partenza. Riguardo le pratiche, sarebbe il caso di valutare quanto la meccanica della testuggine e dello “spingi spingi” riesca a tenere ancora insieme la pratica del conflitto e la costruzione del consenso, ovvero quello che era il principio ispiratore del movimento delle tute bianche.