Consigli per gli acquisti

Consigli per gli acquisti

Riportiamo l’intervento che abbiamo fatto ieri all’iniziativa di presentazione – organizzata da rebus magazine – del nuovo libro di Massimo Recchioni, Il tenente Alvaro, la Volante rossa e i rifugiati politici italiani in Cecoslovacchia, che consigliamo a tutti di leggere.

Ci fa molto piacere presentare questo nuovo libro di Massimo Recchioni, Il Tenente Alvaro, la Volante Rossa e i rifugiati politici in Cecoslovacchia (1), dopo che già avevamo apprezzato, due anni fa, il suo Ultimi fuochi di Resistenza (2), che termina proprio come inizia questo nuovo volume, ovvero con i funerali di Giulio Paggio, il “tenente Alvaro”. Racconti corali, basati principalmente su fonti orali, questi due libri iniziano a colmare una lacuna su una parte di storia del dopoguerra che – imbarazzante per alcuni, completamente da rimuovere per altri – è stata raramente affrontata dalle ricostruzioni storiografiche, se si escludono gli ottimi lavori di Cesare Bermani (3) e poco altro (4). Di particolare importanza, inoltre, che non si tratti esclusivamente di una storia della Volante Rossa – le cui vicende occupano nei due libri di Massimo Recchioni, anzi, una parte abbastanza marginale – ma la storia degli uomini, e delle donne, che hanno a lungo pagato con un lungo esilio la loro militanza politica. In questo modo viene ad essi restituita la loro dimensione politica e, soprattutto, quella umana, fino ad oggi presa in considerazione solo marginalmente.

Per quanto la vicende della Volante rossa sia stata poco esplorata dalla storiografia, non crediamo sia troppo convincente la categoria del «pezzo di storia del nostro paese sconosciuta perché occultata e rimossa»(5): magari mitizzata, ma di certo non rimossa. Occultata e rimossa dal Pci, ignorata dalla storiografia, quella della Volante Rossa è però un’immagine ben presente nell’immaginario dei compagni, almeno di tutti quelli che si sono collocati al di là del Partito comunista, sia sufficiente pensare ai richiami a questa esperienza che si sono succeduti per tutti gli anni ’70 (6). È stata recentemente esposta, al centro sociale Snia (ma è stata anche alla Palestra Popolare Valerio Verbano), una mostra con i manifesti fatti dai compagni per la morte di Valerio Verbano: il primo di essi, firmato i compagni dell’Autonomia, sotto la scritta “E’ morto un partigiano, altri cento ne nascono”, riportava proprio un’immagine della Volante Rossa (7). Era il 1980 e dalla fine della Volante Rossa erano passati trent’anni, ma la stessa immagine fu poi ripresa anche nel 1992.

Nonostante la sua presenza nell’immaginario di almeno una certa area di compagni, però, la storia della Volante Rossa è stata quanto meno rimossa da altri, cioè da tutta l’area del Pci e dei suoi eredi, per il quale l’argomento era «pressoché tabù, un pezzo di storia da rimuovere o addirittura da negare» (8). Emblematica è l’affermazione di Giovanni Pesce, il mitico comandante Visone, riportata nel libro che stiamo presentando. Egli, interrogato sulla Volante rossa da un giovane compagno, rispose: «Dimenticati della Volante, non è mai esistita» (9).

Davvero significativo, poi, che questo muro di silenzio nei confronti della Volante sia convissuto, per decenni, con un aiuto costante del Pci nei confronti dei compagni della Volante rossa emigrati nell’Europa dell’est, e anche dei loro familiari rimasti in Italia. Aiuto nell’espatrio, ma poi anche aiuto materiale (10).

Una riflessione sull’esperienza della Volante Rossa, come ogni riflessione sulla Resistenza e sul dopoguerra, non può che partire da una considerazione sulla difficoltà, fatta propria anche da molti compagni, di accettare l’uso della forza e la permanenza di pratiche violente, e apertamente illegali, anche a conflitto finito. A questo proposito è emblematico un aneddoto che ci ha raccontato qualche mese fa Sergio Bianchi, editore di questo libro: al momento di scegliere l’immagine per la copertina del volume, la figlia del tenente Alvaro aveva avuto delle perplessità sulla foto scelta – che è quella che vediamo in copertina – in quanto suo padre vi era raffigurato armato. Temeva, ancora oggi, che in qualche modo avrebbe reso al pubblico un’immagine negativa del padre, senza considerare invece che proprio quell’essere armato, in quel determinato momento storico, restituisce al meglio la sua immagine di combattente valoroso, coraggioso e generoso. Del resto, ed è lo stesso Massimo Recchioni a scriverlo nella Premessa, Giulio Paggio è considerato eroe da pochi e assassino da molti, «in una perpetua condizione di “limbo”, delinquenti e mito nello stesso tempo» (11).

Se, da un lato, è certamente comprensibile la difficoltà a considerare normale una simile raffigurazione, dopo decenni in cui ogni pratica di lotta che mettesse in campo anche la violenza è stata accomunata al terrorismo, dall’altro riteniamo necessario domandarci perché tali considerazioni si siano spesso fatte strada anche tra i compagni.

A nostro avviso, la difficoltà ad accettare che gli odii non si siano acquietati con il termine del conflitto, che ci sia stata una «lunga liberazione» (12) durante la quale molti pensavano a come continuare la propria guerra, che la guerra non sia finita il 25 aprile (o, meglio, il 2 maggio), che sia continuata – di certo in forme diverse – per mesi e per anni (dei tre omicidi per cui sono stati condannati i militanti della Volante rossa, uno è del 1947, due del 1949), è in gran parte provocata dal fatto che per decenni, a sinistra, ci si è rifiutati di vedere i tre diversi conflitti presenti nella lotta delle forze della Resistenza contro i nazi-fascisti, ovvero una guerra patriottica di liberazione nazionale, una guerra di classe e anche una guerra civile, in cui italiani combatterono contro altri italiani per l’affermazione di ipotesi politiche radicalmente diverse. Riteniamo, infatti, che nella considerazione di questi avvenimenti si debbano necessariamente evitare le spiegazioni monocausali e lineari (13), per non rimanere senza armi davanti alle accuse e la mistificazione che provengono da destra, tese non solo a infangare gli eventi, ma soprattutto quel portato rivoluzionario di guerra di classe che quell’esperienza portava con sé. È lo stesso procedimento, tra l’altro, che viene compiuto nelle narrazioni ufficiali e istituzionali degli anni ’70, descritti come “anni di piombo” da dimenticare e superare e “anni del terrorismo” per ricondurre alla condanna tutte le conquiste sociali e le esperienze almeno potenzialmente rivoluzionarie di quegli anni. Non è un caso se, come riportato nel libro di Recchioni, costanti sono stati, negli anni, i tentativi di mettere in relazione la Resistenza, la Volante Rossa e le Brigate Rosse (14).

Quando, nel 1991, Claudio Pavone – uno storico sul cui antifascismo nessuno può dubitare – ha pubblicato la sua grande opera in cui definiva la Resistenza anche come una guerra civile (15), anche a sinistra c’è stata una levata di scudi – a partire da quello di Giancarlo Pajetta – contro questa categoria interpretativa. Adoperare l’espressione “guerra civile” per descrivere la Resistenza è sembrata una concessione ai fascisti, un modo per legittimarli come parte – sconfitta – di una guerra in cui si affrontavano due schieramenti con la stessa dignità. Ma la categoria di “guerra civile” non vuol dire certamente questo: come ricordato proprio da Pavone, infatti, «mai come nelle guerre civili le due parti sono irrimediabilmente diverse e divise. I fascisti, coerentemente con la loro storia, volevano un’Italia opposta a quella che volevano i resistenti» (16). Il differente valore delle due parti in campo, infatti, non sta nel loro ruolo nei combattimenti, ma nei differenti valori e ideali per i quali lottavano.

Allo stesso modo, utilizzare la categoria interpretativa della “guerra civile” non vuol dire che essa fu solo – come hanno sostenuto superficialmente Renzo De Felice e Ernesto Galli della Loggia – una lotta combattuta tra due minoranze, mentre la maggior parte degli italiani costituiva una “zona grigia” che, senza prendere parte, attendeva in finestra la fine della guerra. Come se davvero, si potesse rimanere alla finestra mentre la finestra, con la casa, stava crollando (17).

Se da un lato la reticenza di molte frange della sinistra ad accettare la categoria di “guerra civile” è comprensibile alla luce dell’uso propagandistico di questa espressione da parte dei fascisti nel dopoguerra – basta pensare alla monumentale opera del missino Giorgio Pisanò (18) – non si può tacere sul fatto che il ritenere legittima solo l’interpretazione della Resistenza come guerra di liberazione nazionale e come “Secondo Risorgimento” (interpretazione politicamente fruttuosa per la ricostruzione di un’Italia democratica) abbia comportato un ritardo nella comprensione degli eventi dell’immediato dopoguerra, fatto di divisioni e non di unità nazionale. Non si è compreso che una lotta come quella resistenziale, in cui erano confluiti diversi livelli di conflittualità, non poteva terminare da un giorno all’altro, tanto più in un contesto in cui gli stessi fascisti contro cui si era combattuta la guerra civile non solo venivano amnistiati e continuavano a vivere indisturbati, riorganizzandosi in gruppi neo-fascisti spesso dediti ad azioni terroristiche, ma spesso mantenevano anche posizioni di prestigio e di potere, mentre sempre più ex-partigiani venivano incarcerati (19). Ed è questo il contesto in cui la Volante rossa iniziò, alla fine del ’45, la sua lotta contro i risorgenti movimenti neofascisti (20). L’intreccio tra fascismo, guerra, resistenza e dopoguerra è evidente. È lo stesso Paolo Finardi che, nel precedente libro di Massimo Recchioni, dice:

Voglio dire che se qualcuno staccasse la pagina che parla di quel brutto giorno di gennaio del ’49 e la pubblicasse senza un contesto, ne verrebbe fuori un gruppo di assassini pazzi e disperati. Ma, se invece di far semplicemente questo, parlasse di tutto ciò che era successo prima, di quanto il popolo italiano fosse stato costretto a subire per oltre vent’anni – e soprattutto di come i responsabili fossero rimasti tutti impuniti – ogni cosa assumerebbe un significato diverso. […] La storia non è mica un’automobile, mica le si fa le revisione ogni cinque anni. […] E, chissà, più di una volta ho pensato che se anche l’Italia avesse provato a fare i conti col suo passato […] con processi veri e condanne esemplari dei colpevoli, molti di noi probabilmente non avrebbero fatto le scelte che hanno fatto. Per quello che riguarda me, sono sicuro che non ci sarebbe stato questo Paolo Finardi se coloro che erano preposti avessero fatto giustizia. (21)

Non è un caso, a nostro avviso, se, a sinistra, le difficoltà ad accettare la categoria di “guerra civile” provengano dagli stessi ambienti, affini al Pci e alla sua tradizione politica, che per anni hanno considerato un tabù episodi come quelli della Volante rossa e, in generale, tutte le uccisioni e le aggressioni contro gli ex-fascisti nel dopoguerra.

Paradossale è, poi, il fatto che, oltre alla quasi totalità degli azionisti, gli stessi comunisti – durante la Resistenza – non avevano rifiutato, almeno inizialmente, la definizione di “guerra civile” (22). Si trattava, del resto, di una categoria ben presente anche in Roberto Battaglia, per decenni incontrastato autore della principale opera sulla Resistenza (23), in cui tuttavia non usa mai tale espressione (24). A partire da metà anni ‘50, per un decennio, l’espressione ritornò non solo nei discorsi di uomini politici comunisti – si pensi al discorso di Secchia al Senato il 27 aprile 1960 – ma anche nelle opere di importanti storici comunisti, come Spriano o Candeloro (25), per poi diventare nuovamente un tabù semantico a partire dal 1965, quando «con l’avvento del centro-sinistra la Resistenza diventa il fondamento della ideologia della “Repubblica nata dalla Resistenza”, che funge da nuovo sussidio spirituale dello Stato retto da quella nuova coalizione governativa e rapidamente la guerra di liberazione diventa un vero e proprio canone ufficiale di auto interpretazione e auto legittimazione della Repubblica» (26). Non si capisce, quindi, come tanta ostilità nel riconoscimento della guerra civile possa persistere ancora oggi (27).

Proprio in quanto la Resistenza si è caratterizzata anche come guerra civile, con gli ovvi riflessi sul dopoguerra, è secondo noi di fondamentale importanza smettere di tacere le zone d’ombra insite in questi avvenimenti: non si possono trasformare eventi complessi e difficili in santini oleografici, altrimenti si lascia spazio ai revisionismi beceri e ai “rovenscismi” alla Pansa. Lo stesso approccio si dovrà affrontare per la storia del dopoguerra. Come ha scritto Bermani, «lo scandalismo che è stato fatto attorno alla Volante rossa in tutti questi anni è stato favorito dal disimpegno di gran parte della storiografia di sinistra – qui più subalterna che mai – nell’affrontare un po’ più seriamente di quanto non abbia fatto sinora, e in tutti i suoi aspetti, la storia sociale del dopoguerra»(28).

Quindi non solo dobbiamo far nostra la categoria interpretativa della guerra civile, con tutto il «di più di violenza», il «supplemento d’odio» che essa porta con sé (29), ma dobbiamo anche far luce e accettare che in quel grande movimento che fu la Resistenza si ebbero anche delle zone d’ombra, che si rifletterono negli eventi del dopoguerra più o meno immediato. Si tratta di quella che Guido Crainz ha definito come un’«amplissima nebulosa» che, se da un lato si ricollega alla reazione per l’esperienza bellica, rimandava anche «al riaccendersi di aspri conflitti sociali […], a sopraffazioni di avversari politici, ma anche all’esplodere di rese dei conti private e ad antichi rancori interfamiliari e intercomunitari. O, ancora, al più generale “disordine” del dopoguerra, che vede la delinquenza comune crescere a dismisura. Al tempo stesso in alcune aree emiliane e romagnole i drammi del 1943-45 si sovrappongono a una storia più lunga»(30), quella iniziata con l’avvento del fascismo nei primi anni ’20 (31).

In questa situazione, «non poteva quindi mancare chi pensasse a come continuare la sua guerra, scambiandola magari per la guerra di tutti. Qualcuno lo fa diventando bandito, qualcuno vendicatore dei propri torti, qualcuno giustiziere, altri limitandosi ad aspettare “l’ora X”»(32). Ma, invece di accettare la complessità di questo fenomeno, come hanno scritto i Wu Ming nella postfazione all’edizione del 2005 di Asce di guerra,

l’immagine della Resistenza come vendicatrice dei torti subiti da padri e nonni è stata offuscata a colpi di commemorazioni istituzionali. C’è chi ha voluto depurare la Guerra di liberazione dei suoi aspetti più controversi. Così facendo, l’ha allontanata dalle pulsioni dell’animo umano (in particolare delle classi subalterne), l’ha incatenata alla realtpolitik della sinistra ufficiale e tramandata unicamente come conquista di una democrazia ingrippata, incarnatasi in una Costituzione rimasta sulla carta.(33)

I tabù intorno all’espressione “guerra civile”, comunque, sembrano a tratti aver coinvolto l’intera esperienza della lotta armata, probabilmente per un approccio inconsciamente moralistico all’uso della violenza: di ciò ne ha risentito, ovviamente, anche ogni considerazione della Volante Rossa. Sia sufficiente pensare come, anche tra i compagni, sia sempre più frequente la celebrazione delle “vittime”, piuttosto che quella dei combattenti; come sia più frequente l’omaggio ai partigiani “della montagna”, immagine caratteristiche di ogni visione oleografica e romantica della Resistenza, piuttosto che i combattenti dei Gap, che in città si resero autori di innumerevoli attentati. Un esempio emblematico – anche se c’entra poco con la Volante rossa – ci è dato dalle celebrazioni delle Fosse Ardeatine. La volontà di evitare le celebrazioni ufficiali, infatti, ha spostato le celebrazioni dei compagni a un giorno prima del 24 marzo, cioè nel giorno dell’anniversario dell’azione di via Rasella, col risultato che di essa non si parla proprio mai e che si onorano solo i cosiddetti “martiri” – “martiri” che di sicuro non potevano essere all’unanimità combattenti antifascisti, visto che alcuni di essi erano semplici criminali comuni o normali cittadini rastrellati casualmente per strada che probabilmente non desideravano morire per quella causa (e non poteva essere altrimenti, altrimenti non si sarebbe trattato di una strage contro civili) – e mai i gappisti che, a rischio della loro stessa vita, si resero autori di una straordinaria – e legittima – azione di guerra. Si finisce così per il celebrare Aldo Finzi, che per quanto negli ultimi mesi della sua vita si fosse convertito alla causa antifascista, era stato un fascista della prima ora e vice-capo della polizia fascista fino all’omicidio Matteotti, di cui Mussolini stesso gli addebitò la colpa.

Sia chiaro: non vogliamo assolutamente dire che non bisogni celebrare le vittime delle Fosse Ardeatine, ma vogliamo mettere in luce una tendenza, che del resto ha origine nella storica difficoltà della sinistra a parlare di via Rasella (34), ad affermare senza mezzi termini che non solo non è esistito alcun appello ai partigiani che li invitava a presentarsi per evitare la strage, ma che anche se ci fosse stato sarebbe stato giusto non presentarsi (avrebbe comportato la fine della resistenza romana, perché i catturati sarebbero stati torturati con il prevedibile rischio di una loro denuncia dei compagni e della loro strutturazione). E anche a sinistra si sentono astruse interpretazioni come quelle che la considerano atto per far fuori i comunisti di Bandiera Rossa, quasi che rivendicare il portato di violenza legittimo in un contesto bellico fosse ancora impossibile.

Noi pensiamo che dovremmo rivendicarci via Rasella, prima ancora che le Fosse Ardeatine, anche perché il martirologio e l’esaltazione delle vittime aprono strada a quelle interpretazioni che mettono al centro il dolore delle vittime, dai “vinti” del dopoguerra agli italiani del confine orientale. Dovremmo rivendicarci la possibilità di scegliere la resistenza armata e la reazione violenza, in un filo rosso che unisce gli anni ’20 con il presente, senza edulcorare le figure dei compagni che hanno fatto queste scelte, nella Resistenza, nel dopoguerra e anche nella guerra civile degli anni ’70.

Riteniamo, quindi, che nella narrazione e nella memoria delle storie del passato, di quelle che fanno parte del nostro cosiddetto “album di famiglia”, come quella della Volante rossa, ci si debba guardare da un duplice pericolo, quello di procedere a facili mitizzazioni che fanno a meno della conoscenza storica e della contestualizzazione dei fatti e quello di condannare moralisticamente certe esperienze: riteniamo, infatti, che siano entrambe modalità fuorvianti. C’è un passo molto significativo nella postfazione all’edizione del 2005 di Asce di guerra, di Vitagliano Ravagli e Wu Ming, che vorremmo qui ricordare:

Che fare? Semplice: tornare a raccontare la Resistenza a tutto tondo, contro le strumentalizzazioni sul «sangue dei vinti» (il partigiano come nuovo babau, l’immediato Dopoguerra ridotto a trailer di un B-movie del terrore). Un raccontare «infedele alla linea», estraneo ai «buonismi», privo di ufficialità e retoriche patriottarde. Di fronte a scandali, alzate di polvere e pseudorivelazioni, l’unica via è assumersi in toto la responsabilità storica, portare il peso di tutto quanto, anche degli errori e delle lotte intestine, degli umori più cupi e dei sentimenti meno nobili, anche di ciò che è sgradevole e tanfereccio, senza reticenze, al contempo rivendicando il senso complessivo dell’impresa.(35)

Si tratta, tra l’altro, dello stesso spirito che anima il nuovo libro di Massimo Recchioni(36). Le storie, la Storia, sono un materiale intricato, sfaccettato e non lineare, tanto più nelle narrazioni della Resistenza e del dopoguerra: ogni semplificazione non può che essere una banalizzazione, un ostacolo alla comprensione degli eventi.

Note:

(1) M. Recchioni, Ultimi fuochi di Resistenza. Storia di un combattente della Volante Rossa, DeriveApprodi, Roma 2009.
(2) Id., Il Tenente Alvaro, la Volante Rossa e i rifugiati politici in Cecoslovacchia, DeriveApprodi, Roma 2011.
(3) Ad esempio, C. Bermani, La Volante Rossa. Storia e mito di “un gruppo di bravi ragazzi”, Edizioni Colibrì, Milano 2009, che è una riedizione di lavori precedenti. I primi lavori di Bermani sulla Volante Rossa si collocano negli anni ’70.
(4) C. Guerriero, F. Rondinelli, La Volante Rossa, Datanews, Roma 1996.
(5) L’espressione è presa da qui.
(6) Scrive Cesare Bermani che «la Volante Rossa è però negli anni Settanta un punto di riferimento storico e un “mito” operante non solo per le Brigate Rosse, strettamente correlato com’è a un’effettiva ripresa di una peculiare tradizione di lotta antifascista interna alla cultura operaia di area comunista, anche se sconfessata dal PCI di quegli anni. Nel 1976, l’immagine della Volante Rossa che sfila come servizio d’ordine in un corteo comunista a Milano viene riproposta dal circuito della distribuzione editoriale alternativa, che ne trae una cartolina destinata a una vasta circolazione. Questa immagine sarebbe stata poi ripresa più volte nella grafica di “movimento” (C. Bermani, La Volante Rossa, cit., p. 154). Bermani continua affermando che «sembra quindi evidente che il mito della Volante Rossa sia rimasto vivo sino almeno all’ultimo scorcio degli anni Novanta, dando luogo a momenti di continuità ideale con le esperienze di lotta armata degli anni successivi alla Liberazione da tempo ormai non solo disconosciute ma anche obliate da tutti i partiti rappresentanti in Parlamento. Una continuità ideale […] negata dalla “memoria” degli stessi componenti della Volante Rossa, ma che significativamente fu rivendicata da gruppi di giovani militanti degli anni Settanta, proprio per l’assenza di una puntuale ricostruzione storica da parte dei diritti protagonisti. Credo di essere riuscito a mettere in luce come la vicenda della Volante Rossa sia stata molto diversa, sia per il contesto oggettivo in cui si è svolta sia per le finalità che l’hanno ispirata, da quella dei gruppi che vi si sono richiamati per mutuarne comportamenti i quali, nel quadro di ben diverse situazioni e finalità, assumevano altri significati. Nondimeno, questo rinnovellarsi del suo mito dimostra che l’idea della “guerra di classe” è sopravvissuta a lungo alla cattura dei partiti del movimento operaio da parte del “sistema”» (Ivi, p. 158). Le accuse mosse da Bermani al Pci e al Pds sono nette: «Questo mio nuovo lavoro sulla Volante Rossa voleva essere quindi la ricostruzione, anche fattuale, di una vicenda che la storiografia “ufficiale” del Pci e poi del Pds aveva pensato di avere ormai infilato definitivamente in qualcuno dei “buchi della memoria” descritti da Orwell in 1984» (Ivi, p. 170). Anche nel volume di Massimo Recchioni, Bruno Tirabassi, nei suoi ricordi, fa riferimento ad un ricerca curata da una studiosa sull’emigrazione politica, mai pubblicata: «Ebbene, lei fece davvero un buon lavoro, e credo che, se fossimo riusciti a pubblicarlo, avremmo prevenuto anche un sacco di immondizia che è uscita dopo. Perché le cose erano dette in modo che non nascondeva i problemi e i fatti, ma li metteva in un contesto particolare: partiva da cosa era stato il fascismo per capire la reazione, se vuoi in certi casi sbagliata ma politicamente comprensibile, di molti compagni… Tu l’hai visto quel malloppo là? Quella bella ricerca? No? Infatti, perché non è mai uscita. “Alcuni” alla fine non sono stati d’accordo, pensavano che avremmo esposto il fianco alla destra. Ma io non credevo sarebbe andata così, perché non era una confessione, ma una storicizzazione, che è una cosa ben diversa. Era ancora la fine degli anni Ottanta, credo si fosse ancora in tempo per parlarne in quei termini, e forse non farlo è stato un errore storico» (M. Recchioni, Il tenente Alvaro, la Volante rossa, cit., p. 151).
(7) Vedi e vedi.
(8) M. Recchioni, Il tenente Alvaro, la Volante Rossa, cit., p. 198.
(9) Ibidem.
(10) Significativo il dialogo tra Paolo Finardi e due emissari del Pci che gli stavano proponendo la fuga in Cecoslovacchia: «No, compagno. Le cose non stanno proprio così, il partito sa che queste cose succedono ma non le organizza affatto, anzi non ne sa proprio un cazzo, e questo dovevi averlo chiaro fin dall’inizio. È stato Alvaro a decidere gli obiettivi, e al limite con voi, con noi non di certo. Ma venendo al sodo perché saremmo qui, se non fosse il partito a volerti aiutare, aiutarti comunque?» (M. Recchioni, Ultimi fuochi di resistenza, cit., pp. 64-65).
(11) Id., Il tenente Alvaro, la Volante Rossa, cit., p. 11.
(12) M. Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Editori Riuniti, Roma 2004.
(13) Come ha scritto Guido Crainz, «è impossibile avvicinarsi al protrarsi della violenza con chiavi di lettura semplificate, con sguardi sicuri di se stessi: ogni griglia interpretativa è sottoposta a durissima prova e spesso lo storico può segnalare solo gli aspetti, gli snodi su cui nutre dubbi, incertezze, difficoltà di capire» (G. Crainz, L’ombra della guerra. Il 1945, l’Italia, Donzelli, Roma 2007, pp. 85-86).
(14) «Sapete, per certe cose il tempo non passa mai. Pensate che ne maggio del ’99 la televisione ceca mi venne a casa. A Roma le Brigate rosse avevano ammazzato un povero professore – Massimo D’Antona – e loro che fecero? Vennero qui, da me, per parlarne; cinquant’anni dopo la mia condanna! Non come se fossi il mandante, è ovvio, ma per cercare notizie sul nostro rapporto con le Brigate rosse. Incredibile, sanno tutti benissimo che non c’è stato mai, e dico mai, alcun rapporto con loro, e lo sanno bene anche qui. Ma a qualcuno fa comodo pensare e dire il contrario, nonostante si sappia quello che abbiamo detto a riguardo. Sì, è vero, radici operaie, al nord, le avevano anche le Brigate. Ma il nostro periodo non ha assolutamente nulla, a mio modo di vedere, da spartire: noi venivamo dalla guerra, avevamo fatto la Resistenza e ci ritrovavamo i fascisti fin dentro casa. Due situazioni completamente diverse; nessun paragone storico, secondo me ripeto, credo sia possibile» (M. Recchioni, Il tenente Alvaro, la Volante Rossa, cit., p. 201).
(15) C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991. Le stesse definizioni era, comunque, già state date da Pavone in un convegno a Brescia nel 1985 e in uno a Belluno nel 1988. Cfr. Id., La guerra civile, in P. P. Poggio (a cura di), La Repubblica sociale italiana 1943-45, Annali della Fondazione “Luigi Micheletti”, n. 2, Brescia 1986 e C. Pavone, Le tre guerre: patriottica, civile e di classe, in Guerra , guerra di liberazione, guerra civile, Bollati Boringhieri, Torino 1990.
(16) C. Pavone, Prefazione all’edizione del 1994, in Id., Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. XVI.
(17) P. Scoppola, 25 aprile. Liberazione, Einaudi, Torino 1995, p. 49: «Tutti gli italiani hanno lottato in quei mesi terribili. Perfino la controversa questione dell’attendismo deve essere in questa prospettiva rimessa in discussione. Quando si dice: gli italiani che hanno fatto la Resistenza sono stati una minoranza; la maggior parte della popolazione è rimasta alla finestra in attesa dell’esito del conflitto fra i due eserciti, si dice una cosa in parte vera ma che anche non annulla il dato di un coinvolgimento totale e profondo della popolazione nel suo insieme. Non si poteva restare alla finestra quando la finestra stessa, con la casa, crollava; se ci fu attendismo politico nello schierarsi fra fascismo e antifascismo, nello scegliere politicamente, non ci fu possibile attesa nel coinvolgimento nel dramma della guerra: anche per attendere l’esito finale dello scontro militare che si svolgeva sul suolo italiano occorreva durare, occorreva resistere alle mille prove della guerra; anche l’attesa implicava una fuoriuscita dalla normalità implicava grandi virtù e grande forza d’animo. E vi era sullo sfondo, nella coscienza di tutti, la consapevolezza più o meno esplicita, di essere coinvolti in una vicenda epocale di dimensioni mondiali, in una guerra dai cui esiti sarebbero dipese le sorti della umanità intera». Sulla stessa linea sembra essere anche Gian Enrico Rusconi: «Nella guerra civile la popolazione non può sempre tirarsi fuori, passiva spettatrice. Vi è presa dentro, compromessa senza averla scelta, perché avrebbe preferito stare ad aspettare la fine del conflitto» (G.E. Rusconi, Resistenza e postfascismo, Il Mulino, Bologna 1995, p. 21).
(18) G. Pisanò, Storia della guerra civile in Italia, 1943-1945, 3 voll., FPE, Milano 1965-1966.
(19) Secondo Rusconi, «già alla fine del 1944 questa prospettiva radicale viene frenata non solo dagli Alleati (ricordiamo il colloquio Macmillan-Pizzoni) e dai partiti moderati, ma dallo stesso Partito comunista togliattiano che aspirando a diventare un partito di massa attento anche agli interessi dei ceti medi produttivi e impiegatizi, deve mostrarsi comprensivo nei confronti delle masse dei piccoli ex fascisti. Questa strategia politica è in atto prima della fine ella guerra e urta inevitabilmente contro le attese di molti militanti della Resistenza, comunisti soprattutto. Vengono così poste le premesse dell’ondata di vendette e di resa dei conti illegali nei confronti di fascisti grandi e piccoli dei mesi immediatamente seguenti alla Liberazione. È plausibile cioè che ci sia un nesso tra la vera o apparente attenuazione delle misure ufficiali di epurazioni e le iniziative dal basso per forme di giustizia sommaria. Ma soprattutto si diffonde precocemente nella sinistra l’idea di un’epurazione fallita o “mancata” in partenza» (G.E. Rusconi, Resistenza e postfascismo, cit., pp. 161-162). Anche Guido Crainz ha messo in luce come «le violenze si riaccendono […] quando ritornano ai loro paesi fascisti liberati dai campi di internamento, e poi ai primi annunci di amnistia. Talora vi sono uccisioni notturne, più spesso intimidazioni, e nuove esplosioni di violenza ai processi» (G. Crainz, L’ombra della guerra, cit., p. 110).
(20) «Poi l’attività della Volante Rossa subirà qualche mese di stasi, in relazione alla convinzione che il compito fosse terminato. Ma – in concomitanza con la ripresa delle azioni terroristiche da parte della destra – la Volante Rossa inizia sul finire del ’45 una implacabile lotta clandestina contro i risorgenti movimenti neofascisti. Si tratterà di uno scontro tra organizzazioni paramilitari, senza esclusione di colpi» (C. Bermani, La Volante Rossa, cit., p. 52). Secondo Bermani, le fasi dell’esperienza d