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il gioco dell'inferno

Come avrete capito abbiamo passato gran parte delle nostre vacanze “romane” cercando di alleviare la calura agostana coll’ausilio di qualche libro, qualcuno bello qualcun’altro meno. Tra i primi sicuramente mettiamo questa raccolta di Ettore Maggi editata dai tipi della BESA. Otto pregevoli racconti che accompagnano chi legge tra salti di tempo e di spazio (la resistenza, gli anni ’70, il G8 e poi ancora la resistenza e gli anni ‘90) e che solo una lettura superficiale potrebbe far credere disarticolati tra loro. In realtà, a guardar bene, c’è un robusto filo rosso che li unisce, ed è quello dell’antifascismo e della resistenza. Un antifascismo raccontato come una scelta di campo istintiva, etica ed esistenziale prima ancora che politica che spinge a stare sempre dalla parte del torto, a vite viaggiate in direzione ostinata e contraria. Ed una resistenza declinata come piace a noi, fuori dalla retorica istituzionale e senza le fanfare dello Stato ma con l’inevitabile portato di sangue e sudore, pietà e vendetta, lacrime e gioia che ce la rendono più vicina, più vera, più nostra. E non a caso i protagonisti di queste storie sono gli incompatibili al sistema dominante: partigiani, lavoratori, rude boys e skinheads, rapinatori…

di seguito proponiamo uno degli otto racconti particolarmente significativo

LUGLIO 1944

La storia non deve solo fare felici i figli, ma vendicare le sofferenze dei padri.
WALTER BENJAMIN

Sestri Ponente (Genova) 21 Luglio 1944

Aldo dice che è meglio che stia nascosto ancora un po’. Aldo è mio fratello, è nella Coduri, nel Tigullio, da quasi sei mesi. Lui non era contento quando sono entrato nella Malatesta, dice sempre che io sono una testa matta e loro sono delle teste più matte di me, e che Dettori è un bravo compagno, ma è anarchico e gli anarchici fanno solo casino. Non so, a me Dettori piace, è stato uno dei primi a muovere il culo, è stato tra gli organizzatori delle prime squadre, ci ha insegnato a sparare. Aldo ha detto che le Browning che ci hanno dato, a me e a Gianni, più che tirarle in testa ai fascisti e ai crucchi non possiamo fare, che una volta su due si inceppano e poi sono poco precise. A me Dettori piace, però forse Aldo ha ragione, infatti da quando hanno arrestato Dettori e ammazzato gli altri, adesso che la Malatesta praticamente non esiste più, ho deciso di fare come ha detto lui. Sono nascosto ormai da quasi un mese, e avevo deciso di raggiungere Aldo, avevo già tutte le indicazioni, per andare a Riva Trigoso, proprio dove lavorava mio padre Ettore prima che venissimo a Genova. Non mi sarebbe dispiaciuto entrare nella Coduri. Sono organizzati, sono forti. Però è pericoloso arrivare fino a Riva, allora ho deciso di entrare nella Alpron, che opera qua vicino. C’è uno che conosco che ha preso i contatti, ormai è questione di giorni. Devo stare tranquillo ancora qualche giorno, hanno detto. Il fatto è che io non riesco a stare tranquillo. Lo so che non c’è altra soluzione, soprattutto dopo quello che è successo a giugno. Un mese fa sono venuti in fabbrica i tedeschi, alla San Giorgio, come tutte le altre fabbriche di Genova, e hanno portato tutti in Germania, a lavorare.
A sostenere lo sforzo bellico dell’alleato germanico, hanno detto.
Alla San Giorgio lavoravo alle centraline di tiro, dicono che i miei compagni li hanno portati vicino a Monaco, a Kottern, mi pare che si chiami, dove fanno le bombe volanti, come si chiamano, le v2, quelle che i crucchi mandano a Londra. Per fortuna io e Franceschin quel giorno siamo arrivati in ritardo, e siamo riusciti a scappare. Franceschin è un ragazzino, ha diciotto anni e mi sta sempre appiccicato, in fabbrica e anche fuori. Quel giorno mi ha fatto fare tardi, ero incazzato con lui, che pensa di starmi appiccicato solo perché ho sette anni più di lui. Ero incazzato, ma poi lo avrei baciato, perché è stato per lui che siamo arrivati in ritardo e non ci hanno preso.

22 luglio 1944

Oggi è passato Piombo. Piombo è un mio amico, adesso che Dettori è stato arrestato è lui che si occupa dei contatti tra la nostra squadra, quello che ne resta, e la federazione. Gli ho detto che sarei passato a un’altra formazione, l’ultima volta che ci siamo visti si era deciso che non aveva senso cercare di organizzare un’altra squadra, e ognuno sarebbe passato alle formazioni che operano da queste parti. Zecca dice che andrà nella Langhe, un’autonoma, invece Pittaluga è già andato nella Coduri, con Aldo. Hanno litigato, Pitta voleva che lo seguisse, ma Zecca gli ha detto che a lui gli stalinisti non piacciono, allora Pitta si è incazzato, poi però si sono abbracciati. Quei due mi fanno ridere, litigano sempre e poi sono culo e camicia, che quando si sono salutati a Pitta scendevano le lacrime. Piombo voleva sapere dove andavo, ma non gli ho detto niente. Mi dispiace nasconderglielo, ma sono stati chiari, non posso dire niente a nessuno, nemmeno ai miei fratelli. Mi ha chiesto se anche Franceschin veniva con me.
“Certo che viene con me. Come faccio a liberarmi di lui?” gli ho detto, e lui si è messo a ridere.

23 luglio 1944

Stavo cominciando a innervosirmi, a stare sempre nascosto come un topo. È per questo che quando Franceschin è passato da me e mi ha chiesto di accompagnarlo da sua madre, ho accettato. Veramente sul momento l’ho mandato a cagare, mi sembrava troppo pericoloso.
“Vacci da solo”, gli ho detto.
“Vieni anche tu, Tebba. Se ci sei tu sono più tranquillo”.
lo mi chiamo Eugenio, ma tutti mi chiamano Tebba. Allora ho deciso di andare. Ho preso la Browning da sotto la mattonella, ho preso un caricatore e me li sono infilati dentro la giacca. Sono passato da mia madre. Lei si è preoccupata, mi ha detto di non andare, ma poi ha visto Franceschin, ha visto che aveva paura e mi ha dato un bacio sulla fronte.
“Stai attento”, mi ha detto.
“Sto sempre attento”, ho risposto.
“Sei una legera”, ha detto, poi si è messa a ridere.
Dopo siamo usciti. Sulla porta Franceschin mi ha guardato.
“Ah… Viene anche Piombo. Ci vediamo nella piazza della chiesa. Ha detto che ci vuole parlare”.
Non ho risposto, ma ero contento. Almeno, se c’è da sparare, Piombo spara. Franceschin è un bravo ragazzo, ma se c’è da sparare, è già tanto se riesce a togliere la sicura dalla pistola.

Siamo sulla piazza della chiesa, davanti al fioraio. Dentro al bar ho visto Zecca e Sanna, mi hanno fatto un cenno. Loro sapevano che stavo nascosto, che non mi facevo vedere in giro. Ho indicato Franceschin, per fargli capire che dovevo accompagnarlo. Ho visto Zecca chinarsi verso Sanna, e Sanna mettersi a ridere.
Mi accendo una sigaretta, e do un’occhiata in giro. C’è poca gente. Una macchina si avvicina, e io istintivamente infilo la mano nella giacca e tolgo la sicura, ma dalla macchina scende solo l’autista, i due uomini vestiti eleganti rimangono dentro a parlare. Poi arriva Piombo. Arriva di corsa, sudato, io lo fermo e gli chiedo come mai è così sudato, che oggi non fa caldo e ci sono quelle nuvole lassù che sembra che stia per piovere. Piombo mi mette la mano sulla spalla, e mi dice: “Devo andare, poi ci vediamo”. Io cerco di fermarlo, ma lui si allontana, e Franceschin mi guarda, e dice: “Non capisco”. Io invece capisco. Capisco anche perché non c’è quasi nessuno nella piazza, non c’è una sola divisa, non c’è nessuno delle Brigate Nere, o della Muti, o della Guardia Nazionale Repubblicana. Questa piazza è sempre piena di divise. E oggi non c’è una cazzo di divisa in giro.
Piombo. Figlio di puttana.
Tiro fuori la pistola e urlo a Franceschin di scappare, poi vedo spuntare un fucile dalla macchina, e punto la pistola e tiro il grilletto. Ma non succede niente, la troia si è inceppata. Cerco di scappare ma dal fioraio escono tanti di quei fascisti che non capisco come facevano a stare dentro, mi puntano le armi contro, e mi colpiscono allo stomaco, alla testa, alle gambe. Franceschin urla, dice che si stanno sbagliando, ma arriva uno della Muti, uno con i gradi da ufficiale, e la sberla è talmente forte che sembra un camion che si schianta contro un muro. Franceschin ha la bocca che sanguina, e non dice più niente, singhiozza soltanto.

24 luglio 1944

Siamo in questura, sono in cella con Franceschin e un altro tipo, un vecchio che piange e dice che lo hanno arrestato perché volevano sapere dov’era suo figlio, e lui non lo sapeva, allora hanno arrestato lui. Anche Franceschin continua a piangere. Ha l’orecchio sinistro gonfio, pieno di ustioni, ha detto che prima lo hanno colpito col manganello e poi lo hanno bruciato con le sigarette. È stato il commissario Veneziani, a interrogarlo. Ho detto a Franceschin di smettere di piangere, gli ho detto che non lo sopportavo più. Poi lui mi ha guardato, con quella faccia da ragazzino spaventato. Non ho detto più niente e l’ho abbracciato.
Cristo, ha solo diciotto anni.

* La storia raccontata, salvo alcuni particolari, è vera. Eugenio Maggi detto Tebba, e Francesco Fusaro, detto Franceschin, arrestati a Sestri Ponente (GE) nel luglio del 1944, furono interrogati e torturati dal commissario Veneziani, responsabile della sezione Politica della questura genovese. Il commissario Veneziani, ucciso dopo la Liberazione, è citato (ma senza spiegare chi fu) in un libro di successo, Il sangue dei vinti, e considerato una vittima. In seguito, Tebba e Franceschin furono trasferiti a Milano, nel carcere di Sati Vittore, poi nel lager di Bolzano, per essere consegnati alle ss tedesche e deportati a Dachau, come la maggior parte dei prigionieri politici. Il 96% dei circa 45000 italiani (20% ebrei, il resto prigionieri politici o militari) deportati nei lager nazisti mori. Invece Eugenio Maggi e Francesco Fusaro riuscirono a sopravvivere fino al 29 aprile dei 1945, quando il lager di Dachau fu liberato dagli americani. Eugenio Maggi, che al momento della liberazione pesava poco più di trenta chili, era mio padre. Si è suicidato nel dicembre del 2003, come Primo Levi e molti altri ex deportati: pur essendo un vincitore (almeno secondo la moda corrente) non era mai riuscito a liberarsi dei fantasmi che lo accompagnavano da sempre.