consigli (o sconsigli) per gli acquisti

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E’ da poco uscito per i tipi della Zambon “Giovane Cuba”, un libro che raccoglie le impressioni ricavate tra il 1963 e il 1964 dalla giornalista statunitense Deena Stryker durante il suo secondo viaggio nella isla grande. Ci rendiamo conto che messa così potrebbe forse sembrare un’opera per cubanofili accaniti, forse anche un po’ anacronistica e noiosa. E’ invece questo libro scritto in presa diretta quasi cinquant’anni fa mantiene una freschezza ed anche un’attualità sorprendenti. Nella infinita sequela di osservazioni, aneddoti, dichiarazioni più o meno informali si respirano per intero l’entusiasmo e l’effervescenza di una revoluciòn alle prese con il potere, inteso come l’infinito possibile e non più come l’esercizio del dominio dei pochi sui molti. E anche le contraddizioni, i problemi, gli errori. Segno tangibile che la rivoluzione è un processo e non un singolo atto. E’ interessante, ad esempio, leggere della polemica che oppose il “vecchio comunista” Blas Roca al “barbudos” Alfredo Guevara, allora presidente dell’ICAIC (Istituto Cubano di Arte e Industria Cinematografica). Uno scontro nato sull’opportunità di proiettare o meno alcune pellicole ritenute da Roca portatrici di valori incompatibili con il socialismo ma che tracimò ben presto in un dibattito pubblico sul ruolo dell’arte. Scriviamo questo perchè neanche a farlo apposta proprio pochi giorni fa sulle pagine del Corriere (leggi) è uscito un articolo in cui si rimproverava all’ICAIC di aver censurato il copione di “Cuba te espera”. L’isituto che ha prodotto film scomodi come Fresa y chocolate (tanto per citarne uno) e che da anni organizza il maggior festival di cinema latinoamericano, un evento a cui partecipano migliaia di cubani, avrebbe dunque intralciato le riprese del primo cinepanettone di denuncia che la storia ricordi.  Un film dal cast stellare (Brignano e Pannofino, altro che De Niro) e che Giampaolo Letta, amministratore delegato della Medusa, assicura essere un opera di “analisi sociale” (sic). Altrettanto interessanti, sempre a mo’ di esempio, sono le chiacchierate tra alcuni capi guerriglieri e la giornalista, soprattutto quelle riguardanti la natura marxista della revoluciòn. Tra le tante c’è una riflessione che ci ha particolarmente colpito, forse perchè elaborata da un dirigente inizialmente poco convinto da questo approdo: avevamo capito che non esistono le mezze misure: o si faceva come si è fatto, o questa smetteva di essere una rivoluzione; e quanto al socialismo, non era quello che la propaganda ci aveva fatto credere, e non era nemmeno necessariamente quello che era stato in altri paesi: era quello che ne facevamo noi.