Commento post-elettorale del Comitato Nessuno Sindaco

Commento post-elettorale del Comitato Nessuno Sindaco

da http://votanessuno.wordpress.com

A Roma sono terminate le elezioni comunali 2013: nel derby tra le due borghesie, ha vinto quella che stava – formalmente – all’opposizione. La fine della tornata elettorale è stata un sollievo, francamente, anche per le conseguenze che ha avuto all’interno del movimento antagonista romano. Per quanto ci sia stato, oggettivamente, un “vincitore relativo” (e cioè il non voto, l’unico dato rilevante che riusciamo a cogliere in queste tristi performance elettorali), l’intero movimento esce dalle urne diviso, indeciso e frustrato. Dato che anche il comitato Nessuno Sindaco fa parte del movimento, un ragionamento del genere coinvolge anche Nessuno. In questa tornata elettorale il movimento romano – come spesso è capitato negli ultimi anni – si è candidato massivamente, scontando più di altre volte forti divisioni interne. Divisioni che al ballottaggio non hanno comunque impedito, a chi si dichiarava fuori dal patto di stabilità, la solita chiamata al voto utile ed antifascista per Marino.

D’altronde, in una democrazia liberale, le elezioni sono in mano alla borghesia e quest’ultima le usa a proprio vantaggio, favorendo e sfruttando le divisioni fra i compagni. Quando, poi, una democrazia liberale vota non nel pieno del suo fulgore dinamico, bensì nel pieno della sua crisi politica (coerente con la crisi del suo corrispondente economico, il capitalismo), il risultato minimo che cerca di portare a casa consiste nella sconfitta del nemico, piuttosto che in una propria affermazione.

Non ci ripeteremo: ogni sigla politica, ogni centro sociale, ogni collettivo di compagni/e ha il pieno diritto di candidarsi a qualsiasi elezione di sorta, dal Parlamento Europeo alla carica di amministratore condominiale, nella piena consapevolezza però di cosa si stia facendo. Ricordando, ad esempio, che un movimento sociale funziona in base a logiche diverse rispetto a un partito politico e che le elezioni sono il terreno convenzionale in cui si confrontano i partiti politici, non i movimenti sociali (non facciamoci ingannare dai Cinque Stelle, che non sono certo un movimento, ma un non-partito personale). I primi, infatti, ragionano secondo la logica del numero (infatti le elezioni servono a trasformare i numeri in seggi), i secondi esercitano una “pressione politica” che supplisce alla minorità numerica (che è sempre stata tale nei decenni, per i movimenti: lo era nel Sessantotto, nel Settantasette, nel Novanta, nel Duemilauno). Volenti o nolenti – e prescindendo dalla loro finalità politica – i movimenti sociali sono un’avanguardia della cittadinanza. Secondo noi, peraltro, dovrebbero essere l’avanguardia di una specifica classe sociale, ma questo è un altro discorso. Oltre a questa consapevolezza, i “candidati di movimento” dovrebbero anche ricordare come, nella storia di questo Paese, ogni volta che le grandi mobilitazioni sono andate alle urne hanno preso sonore bastonate numeriche, a meno di apparentarsi con partiti riformisti – che però puntualmente disattendevano gli accordi presi (si veda il famoso caso di Nunzio D’Erme e del Partito di Rifondazione Comunista).

Un’altra precondizione, secondo il nostro modesto parere, per la candidatura elettorale da parte di strutture politiche dell’universo antagonista consiste nell’avere una precisa progettualità politica, che non sembra essere presente nel movimento romano, non solo da oggi. Intendiamoci: è scontato – e più volte ricordato – che i movimenti romani abbiano costituito, in questi ultimi decenni, una straordinaria diga al neoliberismo imperante dopo il 1989, animando con le lotte sociali il terreno del conflitto cittadino e, soprattutto, attribuendo a migliaia di proletari, sottoproletari e di migranti la dignità dei diritti fondamentali (un tetto sotto cui dormire, solo per dirne una). Si è trattato, tendenzialmente, di quelli che vengono definiti “movimenti prefigurativi”, cioè che traggono la propria progettualità politica dalle relazioni sociali che intessono quotidianamente. In questi anni – con le inevitabili differenze che però in questa sede non analizziamo – i movimenti sociali e gli spazi occupati hanno costruito una “buona società” al loro interno (cercando di derogare dalle regole del neoliberismo), provando ad allargarla a spazi più ampi (un quartiere, un Municipio, una città), ma rifiutando ognuna di quelle che sono state definite “meta-narrazioni” e che noi continuiamo rispettosamente a chiamare “ideologie”. È mancata una progettualità più ampia che andasse oltre una sorta di “eterno presente”, ma la cosa non stupisce: veniamo da venti anni di deserto culturale e di pensiero debole, dal punto di vista teorico. Venti anni nel corso dei quali la vulgata negriana e post-negriana ha rintuzzato in un angolo interpretazioni alternative che per decenni hanno mobilitato milioni (questa volta sì: milioni!) di militanti politici. Venti anni di “esodo” con il quale si sapeva da dove si partiva, ma non si sapeva dove si arrivava. Infatti… eccoci qua.

Queste elezioni ci confermano un’idea che non ci soddisfa affatto: il movimento antagonista tende sempre più a essere letto non attraverso categorie politiche, ma diremmo quasi “sociologiche”. Si tratta infatti di un “movimento post-moderno”, cioè che sviluppa all’estremo alcune caratteristiche della modernità, arrivando a un iper-individualismo e accettando passivamente la disgregazione dei grandi aggregati.

A conferma di ciò, l’ultimo aspetto che – sempre secondo il nostro modesto parere – è mancato rispetto alle ultime “candidature di movimento”: una discussione pubblica prima, durante e dopo l’atto della candidatura. Vivere un “eterno presente” significa (anche) decidere giorno per giorno e mettere tutte le scelte sullo stesso piano, sia che si decida chi far suonare tra un mese nel posto occupato, sia che si pensi a cosa fare in sede di ballottaggio per il sindaco di Roma.Vivere un “eterno presente” significa (anche) evitare di fare un bilancio della propria esperienza (positiva o negativa che sia stata), tanto ormai è andata. Che motivo ci sarebbe di discutere pubblicamente? Certo non la possibilità di evitare futuri errori (magari fosse così semplice), sicuramente la possibilità di evitare future divisioni e incomprensioni. E’ per questo che avremmo gradito, e nel nostro piccolo ci siamo impegnati – infruttuosamente – nel costruirla, un’assemblea pubblica di confronto. Per leggere il dato elettorale, commentarlo, capire quali spazi si aprono dopo le elezioni, in quale direzioni muoverci. Capire, cioè, le future linee politiche di chi ha deciso di candidarsi e di chi ha deciso di astenersi. Non un confronto accomodante, e neanche tribunali del popolo in sedicesimi, ma solo una presa di coscienza pubblica delle proprie posizioni, senza per forza ricercare una sintesi. Gli onori di chi si candida sono tali solo se ci si confronta con gli oneri di una presa di posizione pubblica. Che questa volta sta mancando.

Concludiamo: si dice sempre, in questi casi, “ci si vede nelle lotte” (al di là di divisioni e antipatie) ed è vero, per carità. Aggiungiamo: “ci si vede dove si fa politica”, dove ci si confronta, anche aspramente, ma a testa alta e con dignità.