Appunti per la comprensione del pensiero reazionario: Tradizione Mito Storia – La cultura politica della destra radicale e i suoi teorici, di Francesco Germinario

Appunti per la comprensione del pensiero reazionario: Tradizione Mito Storia – La cultura politica della destra radicale e i suoi teorici, di Francesco Germinario

 

Il lavoro in questione, seppur parziale, è destinato a segnare una tappa decisiva nel percorso interpretativo del fenomeno dell’estrema destra, non solo italiana. Per la prima volta nel corso della ricerca storica recente, infatti, uno studioso del campo democratico prende sul serio il pensiero politico della destra radicale, analizzandone le costanti teoriche, i presupposti filosofici, cercando di cogliere quelle invarianti che attraversano le vicissitudini storiche delle formazioni politiche che si rifanno all’opzione neo-fascista. Nel farlo, l’autore analizza in profondità il pensiero teorico-politico di tre autori italiani che più di altri hanno tentato la sistematizzazione di quel corpo di idee e riferimenti filosofici che costruiscono il bagaglio ideologico del neofascismo nelle sue varie forme: Julius Evola, Franco Freda e Giorgio Locchi. Attraverso lo svisceramento delle radici culturali del pensiero dei tre autori citati, Germinario riesce a spiegare efficacemente le costanti teoriche del pensiero della destra neofascista, che prescindono dalla realizzazione storica nazi-fascista per trovare origine nel percorso filosofico anti-hegeliano da Wagner a Nietzsche. Un pensiero che ha come base fondante l’avversione alla modernità, “giudicata quale epoca in cui, attraverso l’avvento del liberalismo e del comunismo, si è realizzato il dominio completo dell’egualitarismo prospettato del giudeo-cristianesimo”(pag.13). Alle ideologie politiche del Progresso, tutte invariabilmente accomunate dalla propensione positiva dello sviluppo storico, il pensiero teorico dell’estrema destra contrappone il recupero di una presunta Tradizione, intesa in senso metastorico, volta a combattere la tendenza all’eguaglianza in favore di una differenziazione culturale-razziale fondata sul Mito (e da questo giustificata). La lotta “per la Tradizione” spiega anche l’avversione costante di ogni tipo di destra verso la Storia e soprattutto qualsiasi forma di storicismo, combattuto in nome di immaginari retaggi culturali derivanti da una Tradizione che si pone per definizione fuori dalla storia.

La conclusione a cui si giunge dopo la lettura del lavoro è che quello della destra è un pensiero fondato sulla contraddizione. Non solo le realizzazioni concrete di questo bagaglio culturale, e cioè il fascismo e il nazismo, sono il frutto politico della modernità e della società di massa (i due regimi non puntavano al ritorno alla natura smantellando la costruzione statale, quanto piuttosto al controllo autoritario della partecipazione delle masse alla vita sociale: costituivano dunque una risposta ai problemi della modernità), ma il tentativo stesso di porsi fuori dalla storia impone la ricerca di miti che per forza di cose si situano in determinati momenti storici “originari”. Situare questi momenti diviene allora impossibile, pena la smentita delle stesse premesse ideologiche di tale pensiero politico. Il richiamo alla “romanità”, ai cavalieri medievali, alle popolazioni pagane indoeuropee, altro non sono che la scelta di un particolare riferimento storico da contrapporre a quello dei propri avversari politici. E quando non lo si trova, lo si inventa, come spiega il noto lavoro di Hobsbawm sull’invenzione della tradizione, che è sempre strumento piegato alle necessità politiche del quotidiano.

Importante, in questo scenario, capire perchè grande parte dei riferimenti (meta)storici delle destre hanno a che fare con il Medioevo, e in particolare dei suoi secoli tra la caduta dell’Impero Romano all’anno mille. E’ esattamente in questo tornante storico che si vorrebbero originati quegli aspetti tradizionali che le destre hanno come obiettivo di recuperare.  Proprio in quella fase il declino dei commerci e degli scambi economici, l’assenza di entità statali capaci di governare il territorio, una certa stasi culturale e artistica, portarono la civiltà occidentale a chiudersi in se stessa e ad assumere la famiglia o il clan come unico orizzonte collettivo, famiglia o clan protetto dal feudatario di turno. E’ in questo arretramento generale, dovuto a cause storiche ben precise, che originano numerosi “miti” della cultura di destra, miti però tutt’altro che volontari e semmai subíti dalle popolazioni europee: lo svuotamento delle città e dei borghi, la fine dei viaggi e dei pellegrinaggi religiosi, la costante insicurezza sociale, la campagna quale unico orizzonte di vita, non furono certo scelte consapevoli delle popolazioni dell’alto medioevo, quanto una crisi economica e politica secolare a cui tale “civiltà contadina” fece fronte nei modi più disparati. E’ questo periodo, non a caso, che viene narrato dalle retoriche romantiche ottocentesche quale crogiolo culturale da cui nascerebbero i caratteri peculiari dei futuri Stati nazionali. Un embrione nazionale che però non ci fu, e che venne subíto più che scelto dalle popolazioni dell’epoca. Come spiega infatti lo storico inglese Chris Wickam nel suo ultimo lavoro (2014), non è certo nei sei secoli successivi alla caduta dell’Impero che possono ritrovarsi i segni storici di una forma di civiltà europea. Semmai, è nella rinascita culturale dopo il XIII secolo che prendono vita quelle forme culturali e politiche che porteranno di lì a poco alla formazione delle prime entità statali e dunque all’istituzionalizzazione di determinate forme di convivenza collettiva. Storicizzare la tradizione è allora l’unico modo per smontarla, ed infatti la storicizzazione è l’altro dei grandi incubi teorici del pensiero di destra, come rileva giustamente Germinario.

Qualora dovessimo cercare una carenza nel lavoro di Germinario, questa è il mancato confronto tra le idee forti della destra radicale e la loro realizzazione politica concreta. I risultati politici effettivi del dispiegamento storico dell’ideologia fascista hanno sempre smentito i presupposti teorici, e questo è doveroso evidenziarlo se non si vuole essere confinati a disputa accademica relegata al mondo delle idee: il fascismo e il nazismo altro non sono stati che un fenomeno storico frutto della modernità capitalistica, materialista e al servizio della piccola e grande borghesia che il pensiero della destra radicale vorrebbe elevare a principale nemico. Tutto fuorché il ritorno ad una mitica civiltà contadina-guerriera idealizzata dal ogni neofascismo. E allora non rimane che concludere, con G. Mosse, che il pensiero di destra non è destinato ad essere letto con le chiavi della razionalità e della coerenza, ma nell’espressione di uno stile di vita, un modo di agire opposto al grigiore borghese, alla malinconica quotidianità, un estetica rivoluzionaria volta alla conservazione del passato. Decisamente poco per farne una cultura politica credibile.