Anatra all’arancia meccanica

Anatra all’arancia meccanica

Noi non riusciamo ad essere obiettivi quando leggiamo un libro di Wu Ming. Figuratevi recensirlo. Per questo, commentare quest’ultimo lavoro del collettivo di scrittori senza nome è stato estremamente difficile. Maledettamente difficile, perché non possiamo, anzi ci rifiutiamo, di recensire un’opera di Wu Ming esclusivamente dal punto di vista letterario. I Wu Ming sono una specie in via d’estinzione, un animale collettivo da proteggere, non da giudicare. Nella più complessiva atomizzazione della vita sociale e culturale italiana, pochi hanno fatto notare come il bivio apertosi fra la cultura e la politica si sia allargato sempre di più. C’è tutto un mondo che fa cultura, e la fa bene; un mondo fatto di ricercatori, di economisti, di storici, di sociologi e via dicendo che ogni anno sforna una quantità di saggi inverosimile. Contestualmente esiste un altro mondo, che cerca di fare politica, che si batte nelle strade, nei quartieri, nei luoghi della produzione. Ecco, queste due strade non si incontrano più. Non si incontrano più anche perché sono scomparsi gli intellettuali. Che sostanzialmente, avevano una sola missione: quella di unire il colto al popolare, di portare le analisi che venivano fatte nei luoghi della produzione del pensiero alla gente, quantomeno a quella gente che poi faceva politica. Questo trade d’union, fondamentale in una società democratica, consentiva di rendere popolare ciò che veniva espresso dai ceti intellettuali, e soprattutto creare una coscienza civile e popolare. E invece oggi (da qualche anno) quel meccanismo virtuoso si è spezzato: chi fa cultura non frequenta più le dinamiche reali, perdendosi negli alambicchi intellettuali di chi non riesce più a comprendere la realtà perché non la vive più; chi invece fa politica, o semplicemente si tiene informato tramite i media di massa, non riesce più ad avere quegli strumenti culturali che consentivano un’interpretazione migliore di ciò che succede nel mondo.

Perché questa premessa? Perché invece i Wu Ming rappresentano quegli intellettuali militanti, che tramite le loro narrazioni costruiscono vedute d’insieme, miti, elementi di identificazione collettiva fra soggetti più disparati. Dunque, un libro di Wu Ming dovrebbe essere letto anche tenendo conto di questo. O almeno, noi lo leggiamo anche attraverso questa lente, per cui ritroviamo nelle storie narrate tutto quello che ci parla di noi, della politica, dell’oggi, della nostra situazione.

Quindi eccoci a parlare di questa nuova opera dei senza nome. Questa volta l’oggetto narrativo è una raccolta di racconti, quasi tutti già editi nel corso di questo decennio. Racconti, romanzi brevissimi, visioni collettive,  già pubblicati su internet, o su qualche quotidiano o rivista. Qualcuno invece completamente inedito. A questo punto è necessario fare un’altra premessa: per quanto siano già in gran parte racconti editi, noi non li avevamo ancora letti. E per fortuna, a questo punto. Ci siamo ritrovati tra le mani qualcosa di completamente nuovo. Niente di già subodorato, di già letto, di poco attrattivo. No, per qualche favorevole congiuntura astrale, abbiamo potuto leggere questi racconti ancora vergini, non preparati e anche colti di sorpresa, possiamo anticipare. E questo ha un po’ bilanciato il pregiudizio col quale partiamo rispetto a tutti i loro lavori.

Dopo aver letto di seguito questa serie di visioni collettive, risulta impossibile una reductio ad unum, che ci consenta di poter giudicare complessivamente l’opera. I racconti andrebbero recensiti uno per uno, presi singolarmente e analizzati. Non solo le storie, ovviamente, sono le più disparate. Ma anche gli stili, i propositi, gli ambiti letterari e immaginari affrontati sono dissimili, rendendo impossibile parlare di quest’opera in maniera omogenea, perché non è un’opera omogenea: procede a salti, a scossoni, salite e discese, cambi di ritmo e di stili. Prima comici, poi apocalittici, onirici, tragici. E poi ancora iperrealisti, e poi subito dopo visionari. Insomma, sembrerebbe un lavoro improbo cercare di trovare una sintesi in questo lavoro. Però un tratto comune, nonostante tutto, alla fine affiora dalle pagine del libro: è l’evoluzione di ciò che ci circonda avvenuta in questo decennio. Evoluzione che intravediamo negli atteggiamenti, nel modo di scrivere, negli argomenti che poco a poco leggiamo, addentrandoci nel testo. Prima esilaranti, comici, sarcastici, come sospinti da una leggerezza che si respirava al di fuori del contesto narrativo. Poi sempre più riflessivi, ora onirici ora ancorati alla realtà; un pessimismo che piano piano cresce, fino alla tragicità di certi racconti o alla ricerca di qualcosa d’altro, una sorta d’evasione dal mondo reale che sfugge di mano. E non possiamo non notare il percorso che in questo decennio abbiamo affrontato come movimenti: da un sobbalzo di energia collettiva positiva degli anni a cavallo del secolo, alla presa di coscienza del fallimento di un’esperienza, fino ad una realtà che supera man  mano ogni più fosca previsione del futuro. Una realtà che abbiamo sempre più difficoltà a capire, e non ci resta, a volte, che rimanere sconcertati di fronte alla sequenza di eventi che ogni giorno di vengono vomitati dai media onnipresenti. Convinti di aver immaginato già tutto l’inimmaginabile, per essere smentiti quotidianamente e implacabilmente.

Questi racconti vale la pena leggerli. Alcuni di essi sono, sinceramente, qualcosa di eccezionale. Di eccezionale comicità, come “Benvenuti a sti frocioni 3” o “Tomahawk”, dove si fa fatica a finire il racconto senza provare dolore addominali per le risate; oppure di grandiosa visionarietà, come la parodia nera del mondo di Topo Lino e Anatrino, un mondo che non avevamo mai neanche immaginato in questi termini. Racconti che rompono col senso comune imposto, per ritrovarne un altro creato da chi è stufo del modello  di unanimismo precotto. Un mondo che diventa violento dove vige la dittatura della bontà. E che invece riscopre valori e sensazioni umane dove regna incontrastato il mondo della cattiveria e dell’ignoranza umana, come nel racconto “Mamodou”. E poi tanti altri, ma ci piacerebbe chiudere sul racconto “Bologna social enclave”. Beh, non vi sveleremo niente, ma dovrebbe esserne obbligatoria la lettura, in determinati contesti politici di movimento. Anche in poche pagine e in un contesto ironico, si possono capire certi errori e certe coazioni a ripetere (e a riperdere) che ci contraddistinguono, e che caratterizzano determinati luoghi di movimento, autisticamente chiusi in un mondo che è sempre più lontano dalla realtà.

Insomma, per concludere, ne vale davvero la pena. Vale la pena comprarlo, leggerlo, riderci o rifletterci sopra. Non tutto è perfetto, qualche racconto è chiaramente migliore di altri, ma nel complesso un insieme di visioni prodotte dal decennio appena trascorso, utile per capire cosa è cambiato in noi dal ’99 ad oggi. Il tutto, in una serie di racconti senza morale e senza la speranza del finale rassicurante, violenti e reali come è giusto che siano. Non è questo il momento per ripeterci che andrà tutto bene; è il momento di rimboccarci le maniche e ricominciare a capire.