Aggiornamenti dalla Delegazione romana per Kobane (primi 3 giorni)

Aggiornamenti dalla Delegazione romana per Kobane (primi 3 giorni)

Inauguriamo lo spazio dedicato agli aggiornamenti dalla Delegazione romana per Kobane. Di seguito trovate il resoconto dei primi 3 giorni di viaggio. Invitiamo a seguire più da vicino gli sviluppi di questa iniziativa sulla sua pagina facebook (https://www.facebook.com/romaperkobane) o sul blog (http://delegazioneromakobane.noblogs.org/)

PRIMO GIORNO DI AGGIORNAMENTO DALLA DELEGAZIONE ROMANA PER KOBANE

Il primo impatto che subiamo è acustico. Siamo stati svegliati dal rumore dei Jet della coalizione. Un sibilo che riempie i cieli senza nessuna fonte. Aerei che non si vedono sorvolano Kobane. Una minaccia occulta, che non si capisce a chi sia rivolta. La minaccia di una potenza che non si manifesta e che potrebbe colpire te. Una potenza in ogni caso ostile. Mentre nel cielo passano aerei invisibili, il villaggio si sveglia. Rumori più amichevoli, voci di bambini che giocano, il cinguettare degli uccelli che sembrano anche loro aver trovato rifugio in grande numero sui pochi alberi del villaggio. Rumori di una vita normale. Ci portano a fare una passeggiata verso il confine. Kobane è solo a qualche chilometro e si distende da Est a Ovest seguendo il fianco di una collina. La parte di città che abbiamo davanti è quella residua in mano all’Isis. Proviamo ad avvicinarci al filo spinato ma  il presidio di militari turchi che sta a qualche decina di metri da noi ci intima di allontanarci. Tra la città sotto assedio e il confine si distende un lungo cimitero di macchine, furgoni, trattori, tutti i mezzi che i profughi in fuga hanno dovuto lasciare per avere il permesso dal governo turco di passare la frontiera. Ci dirigiamo verso Mehser. Iniziano a sentirsi alle nostre spalle i colpi di artiglieria , seguiti da quelli dei mitragliatori. Uno scoppio potente e poi subito dopo tanti altri secchi e ravvicinati. A Kobane si combatte e non ci è dato sapere chi spara e chi è sotto attacco. Rientriamo al villaggio. Davanti a noi gli abitanti di questo ultimo presidio solidale prima della guerra si sono disposti in un semicerchio, rivolto verso la città siriana, come in un abbraccio ideale. Nel silenzio rotto da alcuni colpi, i Curdi e le Curde iniziano a intonare i loro canti, indirizzati ai fratelli e alle sorelle che combattono oltre il confine. Un suono potente come quello dei cannoni quello di trecento voci che cantano all’unisono. Un suono che si distende per tutta la vallata che si trova tra noi e Kobane e sicuramente raggiunge la città. Come se fosse stato prestabilito, alla fine del canto i colpi si intensificano.  Con il solito ritmo: un colpo di artiglieria che segue a raffiche. Al villaggio si attende. Si cerca di capire scrutando il profilo della città chi stia portando avanti l’offensiva. Un fumo grigio, finalmente si alza dalla parte della città sotto il controllo di Daesh. Forse i guerriglieri stanno riconquistando terreno.

Sono le 11 e dal minareto della moschea il canto del Muezzin richiama i fedeli. Mentre alcuni si mettono a pregare, noi incontriamo un combattente che è appena ritornato dal fronte: è passato di notte ferito ad una gamba. È passato illegalmente perché ci dice che alla frontiera o ti sparano oppure ti arrestano. Ci parla ma sembra teso. Gli chiediamo come procedono i combattimenti, come viveva prima dell’attacco dell’Isis. Ci dice che intorno a Kobane si stringe una morsa, che solo la città curda riesce a resistere alla avanzata degli sgherri del califfo nero. I villaggi intorno hanno paura. Ma Kobane è riuscita ad aggregare le forze diverse che in Siria combattono per la libertà. Un esempio che inizia a fare paura a più parti. Poi lo lasciamo.

La nostra giornata continua tra incontri, racconti, molti dei quali non possiamo neanche comprendere. Ma tutti vorrebbero spiegarci la situazione, la loro storia o anche soltanto farci qualche domanda per curiosità, non tanto perché stupiti della nostra presenza, quanto per il gusto di chiacchierare e di conoscersi. Prima di pranzare un compagno di Ergis propone di spiegarci come funziona il confederalismo democratico, il modello che ha guidato la rivoluzione in Rojava e che anche in Turchia si sperimenta in diverse municipalità. Ne nasce una chiacchiera di un ora e più. Molte le nostre domande, quasi asfissianti. Molti gli esempi concreti di come funziona in diverse parti, non solo nel Rojava che resiste. Poi con un sorriso ci dice, la rivoluzione è ancora come un bambino appena nato; sta gattonando nel tentativo di rovesciare un ordine dell’esistente che lo assedia da più parti, bisogna avere pazienza per vedere i frutti maturi che potrà dare.

I tempi sono scanditi sempre dai rumori dei combattimenti che smettiamo di sentire solo quando nel pomeriggio ci portano a Suruc. La cittadina ha accolto più di 60000 profughi che si stanno gestendo in maniera autorganizzata aiutati dagli abitanti del municipio turco. http://www.dinamopress.it/news/lautogestione-curda-nei-campi-dei-rifugiati

Prima che il buio chiuda la giornata la nostra guida ci porta a uno di questi campi.  Li possiamo assistere stupiti e commossi alla forza e alla dignità di queste persone. Poche parole possono descriverlo. Forse nessuna. Saranno sentimenti che sappiamo non ci lasceranno facilmente. Kobane resiste. La rivoluzione avanza.

SECONDO GIORNO DI AGGIORNAMENTO DALLA DELEGAZIONE ROMANA PER KOBANE

E stata una notte di scontri. Dal tetto della moschea di Mehser si potevano vedere, anche nel buio, il fumo alzarsi dalle strade di Kobane. Proiettili traccianti e colpi di mortai si ripetevano in quantità. A un certo punto si è alzato una colonna di fuoco che ha illuminato tutto l’orizzonte. Gli aerei della coalizione sono dovuti intervenire, ancora una volta in maniera tardiva e inefficace. Eppure il centro di comando delle truppe di Daesh è conosciuto: una grande bandiera nera sventola sull’ormai ex ospedale della cittadina siriana, nella parte Est che rimane sotto il loro controllo.

Nei combattimenti notturni le forze dello YPG/YPJ sono riusciti ad avere la meglio. Due comandanti e numerosi uomini del califfato sono morti. Ma all’alba una grande esplosione ha aperto la giornata. Un fumo nero denso copriva tutta la città più vicina al villaggio di Mehser.

Le prime notizie parlavano di un’autobomba fatta passare dal confine turco,di un morto e alcuni feriti.

Al centro culturale di Suruc si notavano facce molto tese, occhi lucidi. Nonostante tutto ci siamo diretti al deposito dove i compagni dell’ Dbp (il partito curdo della regione) smistano gli aiuti per i vari campi. Ci sono urgenze che non possono venire a mancare. Ci sono lavori che bisogna fare anche nei momenti di lutto. Ma mentre con altri solidali lavoravamo al confezionamento di pacchi di provviste e di coperte, di quello che insomma serve nei campi, numerose voci ci hanno portato in strada. Un corteo spontaneo di ragazzi e ragazze si dirigeva verso sud,verso il confine. Istintivamente cerchiamo di raggiungerli. Ci fermano e ci dicono che stanno arrivando i feriti. Non sono cinque, come avevamo creduto fino allora, sono venticinque feriti e otto morti tra civili e combattenti delle unità di difesa popolare.

Andiamo all’ospedale.Una folla in ansia aspetta l’arrivo delle ambulanze, sperando di non dover ritrovare un proprio caro. Conosciamo una donna, ci parla a lungo, ha al suo fianco un bambino. Ci dice dell’orgoglio di essere la madre di un combattente, ci racconta dell’assurdità di quello che stanno vivendo: attaccati dai gruppi salafiti, respinti dal governo turco, senza la possibilità di parlare la propria lingua, senza la possibilità di vivere.

Piano piano arrivano nuovi aggiornamenti, le notizie trapelano poco a poco dal confine. Questa notte l’Isis ha preso postazione per i suoi mortai dalla parte turca del confine, vicino a Mursitpinar, nei pressi di un magazzino alimentare a poche centinaia di metri da una delle basi dell’esercito di Erdogan. Non solo. Dal confine non è passata una macchina. Un camion che doveva portare aiuti umanitari, fatto passare senza problemi, è arrivato al check point della strada che porta a Kobane dal confine turco e che era sotto il controllo dell’esercito rivoluzionario curdo. Quel camion è esploso con il suo carico di tritolo. Un colpo alle spalle. Un colpo che ha fatto molto male. L’esercito proverà a smentire, ma testimoni e lo stesso presidente della provincia di Urfa confermeranno che nella notte gli attacchi di Daesh sono partiti dal lato turco del confine.

Torniamo al villaggio. Lì si sono diretti tutti i solidali, da lì arriva la notizia che l’esercito turco prepara a sgomberare. Sono momenti molto concitati. Vediamo chiaramente partire dalle sagome dei carrarmati turchi più di un colpo diretto verso la frontiera. Un’intimidazione che non si sa a chi è rivolta. Le colonne di fumo continuano ad alzarsi da Kobane. Decidiamo cosa fare. La minaccia di un intervento turco al villaggio non è un pericolo così remoto; abbiamo visto, e sentito, in questi giorni quale è il loro atteggiamento e cosa sono capaci di fare, ma stabiliamo di rimanere, solidali con la gente che qui è accorsa in gran numero e che alza canti di sostegno ai combattenti dello YPG/YPJ.

I colpi di mortaio provenienti da Kobane iniziano a diminuire, scende la notte e sembra che per il momento non succederà niente.

Rimarremo al fianco della rivoluzione del Rojava.

Con il cuore a Kobane,

Delegazione romana per Kobane.

 

TERZO GIORNO DI AGGIORNAMENTO DALLA DELEGAZIONE ROMANA PER KOBANE

É strano come la vita proceda nella sua normalità anche se a due passi c’è la guerra, anche se la tragedia ti ha colpito, e anche duramente. Momenti di rabbia si alternano a quelli di dolore, ma anche a istanti di serenità e di allegria. Ieri notte la Turchia è bruciata: sulla strada di ritorno al villaggio di Mehser abbiamo visto le barricate messe a bloccare le strade e i ragazzi di Suruc che, col volto coperto, le presidiavano con bottiglie incendiarie in mano. La polizia non poteva passare. Così, in tutti i villaggi e le città della parte kurda della Turchia, violenti scontri hanno infiammato la notte; la rabbia per l’ennesima conferma della posizione del governo turco in questo conflitto non poteva che portare a questo. Ma questa mattina la vita è tornata normale. Il solito traffico di gente e mezzi si è riversato nelle strade del paesino turco.
Per capire questa guerra di confine bisogna provare a immaginarsi il territorio della provincia di Suruc, in kurdo Pirsus. Si tratta di un altopiano, una vasta pianura delimitata a Sud dalle colline su cui si sviluppa Kobanê e ad alcune centinaia di kilometri a Nord dalle montagne del Kurdistan turco. In questo periodo, dopo la trebbiatura del grano, i campi vengono arati. La campagna è disseminata di villaggi di poche famiglie, a poche centinaia di metri l’uno dall’altro; alcuni dei più grandi hanno la loro moschea, come Mehser, ma principalmente si tratta di case di fango e magazzini per il grano, il cotone o i pistacchi. Così il confine è solo una linea immaginaria tracciata nel 1923 dalle potenze occidentali, perché a Nord e Sud la vita è la stessa; almeno lo era prima dell’arrivo di Daesh. Ci hanno portato lungo questa linea a vedere dove si trovano le postazioni dei combattenti, come quelle dell’Isis; cercando di capire come si sviluppa il conflitto nella zona. Andando a Ovest abbiamo dovuto superare le postazioni dell’esercito turco in forze. In un piccolo villaggio abbiamo visto da molto vicino Kobanê, dal lato che porta proprio dove ieri è scoppiato il tir. Ci dicono che non è raro che i colpi di mortaio di Al Baghdadi sconfinino, arrivando a poche decine di metri da loro: ci portano a vedere i resti dell’ultimo proiettile ancora piantato nel cratere che ha creato. Il confine si vede bene perché è una linea di macchine che con la luce che sale da Est risplende. E a ridosso ci sono i campi dell’esercito turco e mezzi in quantità. Poco più a Sud Ovest ci fanno vedere un altro campo. In cima a una collina sventolano insieme le bandiere delle YPG e delle YPJ. È una delle poche postazioni fuori dalla città ancora sotto il controllo kurdo. Ci offrono un the e ripartiamo.
Ci dirigiamo questa volta a Est. Un altro villaggio, Zahvan, altre scene di vita quotidiana: donne che cuociono il pane su una specie di piastra, uomini che sistemano gli attrezzi del lavoro dei campi. Non siamo mai stati così vicini al confine. Pochi metri separano noi dalla linea di filo spinato al di là del quale ci sono campi di mine anti-uomo. Il villaggio ospita un check-point turco di tre casotti e tre uomini che ci guardano con scarso interesse. Ci portano lì per farci vedere il villaggio gemello al di là del confine, Kikan. Alla nostra destra la stessa scena: decine di mezzi abbandonati, alcuni presidiati da profughi di Kobanê che non potendo passare, come in un limbo, controllano che le loro macchine non vengano sciacallate dai miliziani dell’Isis. Sì, perché a Kikan, che dista solo alcune centinaia di metri, c’è Daesh: possiamo vederli col binocolo, alcuni sui tetti delle case, altri tre al bordo del villaggio. Ci raccontano che ieri sera hanno visto passare un camion, con decine di reclute dirigersi a Kobanê; ci dicono che da lì, di notte, passano regolarmente i rinforzi che arrivano dall’Europa, come dalla Cecenia o dall’Africa; quando ai militari turchi domandano di intervenire gli rispondono che non sono quelli gli ordini; possono sparare solo dal loro lato del confine.
Ma la vita prosegue. Le donne che lavorano al pane ci invitano a mangiare: scopriamo che sono profughe ospitate dal villaggio, ci insegnano a stendere la pasta, ridendo bonariamente della nostra goffaggine. Torniamo a Suruc. Dopo aver parlato con i volontari che vengono da tutta la Turchia a seguire la situazione e ad aiutare la resistenza kurda ci siamo diretti a Mehser. Nel pomeriggio il partito ha convocato lì una grande manifestazione e stanno arrivando da tutta la provincia: camion, macchine, furgoncini carichi di uomini e donne che alzano in aria le mani in segno di vittoria passano davanti a noi. Il villaggio che in questi giorni è stato la nostra casa è pieno di gente. Anziani e bambini, uomini con la kefiah per copricapo e donne col velo, si mischiano con giovani vestiti da occidentali, o con le insegne delle Unità di Difesa Popolare. Forse diecimila persone partono in corteo in direzione del villaggio vicino. Macchine si incolonnano insieme alle persone, passando a fianco della strada asfaltata in mezzo ai campi appena arati: alla fine un comizio, mentre da lontano colonne di fumo si alzano di nuovo sopra Kobanê. La rivoluzione è anche questo: tempi diversi, spazi diversi: la lotta, lo scontro, il lutto; ma anche la gioia di vivere, la speranza, il lavoro quotidiano, la vita.
Con Kobanê nel cuore.

Delegazione romana per Kobanê