A Milano quel giorno era caldo…

Nella notte tra il 15 e il 16 dicembre del 1969 nella questura di Milano venne ucciso il ferroviere anarchico Giuseppe “Pino” Pinelli. Il suo assassinio rientra nella manovra portata avanti da apparati dello Stato e che mirava ad addossare alla sinistra la responsabilità della strage di piazza Fontana. Quella che segue è la cronaca diquei giorni così come l’ha narrata Cristiano Armati nel suo “Cuori Rossi”.
Il vicolo cieco imboccato dai poliziotti che indagano sulla Strage di piazza Fontana è quello che, la stessa sera del 12 dicembre, porta la FIAT 850 della questura di Milano davanti alla sede del Circolo anarchico del Ponte della Ghisolfa di via Scaldasole. Immediatamente, il Circolo viene perquisito e, contestualmente, la polizia invita i due anarchici presenti a seguire gli inquirenti nell’Ufficio politico della questura di Milano, al quarto piano di via Fatebenefratelli. A inviti di questo tipo, gli anarchici ci sono abituati. Per questo, mentre Sergio Ardau arriva in via Fatebenefratelli viaggiando nell’850 insieme al commissario Calabresi, l’appuntato Oronzio Perrone e il brigadiere Vito Panessa, il suo compagno, il ferroviere Giuseppe “Pino” Pinelli, considerato uno degli animatori più attivi di Ponte della Ghisolfa, inforca il suo Benelli e si presenta in questura da solo, a bordo del motorino.
Tre giorni dopo, il 15 dicembre, Giuseppe Pinelli non è ancora tornato a casa. Di tanto in tanto ha potuto telefonare a sua moglie, Licia Rognini, alla quale, ogni volta, ha detto di stare tranquilla, di avere pazienza ancora qualche ora perché da un momento all’altro sarebbe stato rilasciato. Alle chiamate dell’anarchico, in casa Pinelli si sono succedute anche le telefonate della polizia. Comunicazioni concitate e contraddittorie con cui gli inquirenti chiedono alla moglie del fermato di procurare qualche documento o, quando arriva lunedì e Pinelli avrebbe il problema di andare al lavoro, le suggeriscono di dire alle Ferrovie che suo marito sarebbe stato assente perché… malato.
Ma chi è veramente Giuseppe Pinelli per spingere la polizia a violare la legge che impone, dopo un tempo massimo di quarantotto ore, di liberare il prigioniero oppure di formalizzare le accuse nei suoi confronti e di tradurlo in carcere con l’assenso di un magistrato?
Giuseppe Pinelli è tante cose. Prima di tutto è il marito innamorato di Licia Rognini – la coppia si è conosciuta frequentando un corso serale di esperanto – e il padre affettuoso di due bellissime bambine, Claudia e Silvia. Poi è un anarchico autodidatta che vive in una casa popolare di due stanze in via Preneste: un appartamento talmente pieno di libri da scoppiare. Ci sono i classici dell’anarchia, certo, ma anche una montagna di romanzi e di poesie – Edgard Lee Master su tutti – e documenti elaborati dai movimenti anarchici greci, inglesi, svedesi: materiali che Pinelli si faceva tradurre non appena ne aveva l’occasione e che leggeva avidamente. Libertario convinto e illuminato, Giuseppe Pinelli vive insieme a Licia un rapporto di coppia sereno e moderno. Non esiste, nella sua casa di via Preneste, il padre-padrone che dopo aver millantato nei circoli chissà quale rivoluzione torna in famiglia per mettersi in ciabatte replicando all’interno del focolare domestico la dialettica dello schiavo e del padrone. Al contrario, casa Pinelli è una specie dì territorio liberato, un avamposto dove l’unica legge riconosciuta è quella dell’amore e in cui di sicuro non esiste la figura della casalinga che lava, stira, cucina e accudisce ma dove, se mai, vige la regola «a tutti secondo le proprie possibilità, a ognuno secondo le sue necessità». Grazie a questo, via Preneste è un luogo costantemente popolato da una ragnatela dì ospiti: studenti e professori che chiedono ai Pínelli di svolgere il lavoro di ribattere a macchina i loro saggi, compagni assetati dì sapere che arrivano per discettare del libero pensiero dì Kropotkin, Bakunin e Malatesta, o amici affamati alla ricerca di una parola buona, di un piatto di risotto e di un letto su cui passare la notte.
Per i poliziotti che, per tre giorni di seguito martellano Pínelli con domande senza senso nel tentativo di farlo cadere in chissà quale contraddizione, la vita dell’anarchico, la profondità delle sue idee, la sua adesione ai principi della non violenza; tutto questo non conta nulla. Per loro un anarchico è un individuo eternamente sospetto, potenzialmente pericoloso, sempre assetato di sangue, capacissimo – lui o qualche suo amico – di andare a mettere una bomba in piazza Fontana per poi    bearsi del risultato conseguito. Simili pregiudizi, ovviamente, non si basano su dei fatti concreti ma sono il risultato dì una feroce campagna stampa, alimentata dalle dichiarazioni di illustri uomini di governo e subìto raccolte dalla polizia. Così, mentre gli anarchici vengono puntualmente accusati di qualunque attentato compiuto ìn Italia, sono in pochi quelli che riescono a leggere negli avvenimenti del 1969 le inquietanti analogie che rendono la situazione italiana straordinariamente simile a quella greca. In Grecia, la giunta militare che prende il potere nel 1967, riesce nell’impresa del colpo di Stato grazie all’organizzazione di una lunga serie dì attentati, puntualmente imputatí ai fantomatici anarcocomunisti: lo spaurac¬chio su cui coagulare una crescente domanda dì “ordine” creata ad arte. Questa stessa strategia, già sperimentata con successo nella penisola ellenica, viene riproposta in Italia: un Paese sordo alle voci con cui la controinformazione inizia immediatamente a denunciare le trame nere che si intravedo¬no dietro la strage di piazza Fontana ma dove la caccia all’anarchico è condotta con mezzi spietati.
Giuseppe Pinelli, il 15 dicembre del 1969 si trova prigioniero di questa trappola. Una gabbia da cui l’anarchico riesce a volare via soltanto poco dopo la mezzanotte. Dopo tre giorni interi di interrogatori, appena una manciata di ore dì sonno e quasi niente da mangiare, il supplizio dell’anarchico si conclude con un tonfo secco sul cortile di via Fatebenefratelli: senza che abbia commesso alcun tipo di reato, Giuseppe Pinelli approfitta di una finestra lasciata aperta per far uscire il fumo di sigaretta che avvolge la stanza e muore preci¬pitando dal quarto piano del palazzo della questura.
La verità sugli ultimi minuti della vita di Pinelli è una storia che non è mai stata raccontata. La prima fonte che smentisce se stessa cambiando più volte la versione dei fatti coincide con l’istituzione che – per aver trattenuto in qustura l’anarchico oltre i limiti previsti dalla legge – è responsabile della mor-te di Pinelli, comunque siano andate le cose. E le cose, almeno secondo il questore di Milano, il dottor Marcello Guida, sarebbero andate così:
Gravemente indiziato di concorso in strage: [Giuseppe Pinelli] aveva gli alibi caduti. Un funzionario gli aveva rivolto contestazioni e lui era sbiancato in volto. Il dottor Calabresi aveva allora momentaneamente sospeso l’interrogatorio per andare a riferire ai superiori. Nella stanza si stava parlando d’altro, una pausa, quando il Pinelli ebbe uno scatto improvviso, si gettò verso la finestra socchiusa perché il locale era pieno di fumo, e si lanciò nel vuoto. Il suicidio è un evidente autoaccusa (dalla conferenza stampa tenuta da Marcello Guida la notte del 15 dicembre 1969).
Fa uno strano effetto pensare a come un Marcello Guida, già responsabile fascista dei detenuti politici avviati al confino di Ventotene prima di essere nominato questore, possa pretendere di avere la serenità per indagare sull’operato e le idee di un ex partigiano. Mentre Guida sorvegliava e puniva i Pertini, i Terracina, i Curiel e gli oltre mille antifascisti accatastati nell’isoletta laziale, Pinelli, appena quindicenne, già rischiava la vita per la Patria (chi è dunque il sovversivo?) facendo da staffetta ai partigiani della Brigata Franco, attivi nella città di Milano. In ogni caso, gli alibi di Pinelli – l’aver passato il pomeriggio a giocare a carte con gli amici al bar Fabiani – non erano stati affatto smentiti dalla polizia. Ecco, allora, che la questura si affretta a cambiare la versione dei fatti. Pinelli si butta sempre dalla finestra, questo sì. Ma solo perché il commissario Calabresi, mentendo come si usa durante gli interrogatori, gli dice che il suo amico e compagno Pietro “Peder” Valpreda, arrestato la mattina del 15 con la stessa accusa di Strage, ha già confessato. Nel sentire queste parole Pinelli sarebbe diventato bianco in volto, poi avrebbe esclamato: «è la fine dell’anarchia!»; quindi avrebbe preso la rincorsa per andare a schiantarsi sul selciato Anche qui c’è un piccolo particolare da sottolineare: Pinelli e Valpreda si conoscono ma non sono affatto amici. Pinelli, come molti altri anarchici in quel periodo, contesta a Valpreda il suo estremismo verbale e la sua esaltazione dei gesti più violenti compiuti dagli anarchici di fine Ottocento. Per questa ragione, tra i due c’è stato più di qualche diverbio, una buona ragione per in-terrompere la reciproca frequentazione. Senza considerare che, mentre Pinelli continua ad animare il Circolo di Ponte della Ghisolfa, Valpreda, di professione ballerino dì rivista, si trasferisce a Roma, dove fonda il Circolo 22 marzo: un gruppo anarchico esposto non soltanto alle critiche di molti libertari per i toni assunti nel corso di talune iniziative – a cominciare da un coro «bombe, sangue, anarchia!» urlato in una manifestazione – ma anche, e soprattutto, per via della struttura “aperta” del Circolo 22 marzo, reputato facilmente esposto alle infiltrazioni dì provocatori e polizia.
Tra le parole e i fatti, naturalmente, esiste un abisso. Gli investigatori, però, seguono passo passo le attività dei 22 marzo grazie a due confidenti mimetizzati nel gruppo: il poliziotto Salvatore Ippolíto e il famigerato ex (?) fascista Mario Merlino. L’estremismo di Valpreda, in realtà, ha valore dì pura provocazione intellettuale: non si esplicita, attraverso fatti precisi ma si limita a rimanere sul terreno delle parole. Secondo il ballerino milanese può servire a scuotere le coscienze e a diffondere la necessità a prendere parte a una protesta che si va gonfiando a dismisura. Nel solo 1969, ben sette milioni di dipendenti si mettono in sciopero incrociando le braccia per oltre trecento milioni di ore. Le rivendicazioni spaziano dalle lotte per la casa ai rinnovi contrattuali, dall’aumento delle pensioni alla richiesta dì approvare uno Statuto dei lavoratori. Puntuali, nel corso dei mesi, ai cortei e alle manifestazioni si alternano le bombe: il 25 aprile, con l’attentato all’Ufficio cambi e alla fiera campionaria; l’8 agosto, con otto ordigni piazzati su altrettanti treni; quindi il 12 dicembre, con la Strage dì piazza Fontana. Le responsabilità della “strategia della tensione” (un termine che si diffonde in questo periodo, mutuato da un giornale inglese) sono altrove ma, nel frattempo, Valpreda ha tutte le carte in regola per vestire i panni del colpevole da gettare in pasto all’opinione pubblica. Così, quando il tassista Cornelio Rolandi – allettato da una taglia da cinquanta mi¬lioni – crede di riconoscere in Pietro Valpreda il passeggero che, il 12 dicem¬bre, noleggia la sua vettura per scendere nei pressi dì piazza Fontana con una borsa di pelle nera… il gioco è fatto. Pietro Valpreda viene ribattezzato il “Mostro” e la “Belva umana” da tutti i giornali, titoli a nove colonne che incorniciano in maniera perfetta, gli occhielli che, legando la sua vicenda a quella di Pinelli, spiegano come e perché l’anarchico milanese si sarebbe suicidato.
La questura di via Fatebenefratelli è un porto dì mare. Un luogo dove poliziotti, giornalisti, ladri e comuni cittadini transitano in continuazione, per i motivi più strani. Nel momento in cui Pinelli precipita dalla finestra, un redattore de «l’Unità» si trova proprio nel cortile e riferisce, con stupore, di non aver avuto la benché minima idea, assistendo al volo, dì avere a che fare con il corpo dì una persona. Sembrò, a quel giornalista, che dal quarto piano ve¬nisse giù uno scatolone, un’impressione giustificata anche dalla dinamica “a corpo morto” della caduta: Pinelli, prima di schiantarsi al suolo, sbatte sui due cornicioni del palazzo, come farebbe per l’appunto un oggetto che, privo di qualunque slancio, viene semplicemente spinto. Insomma, il modo in cui muore Giuseppe Pinelli suscita immediatamente dubbi e perplessità. E i primi a sgranare gli occhi, incapaci di credere alle spiegazioni dispensate da Guida con l’ausilio del capo dell’Ufficio politico Antonino Allegra e del commissario Luigi Calabresi, sono un pugno di giornalisti democratici – tra gli altri Camillo Arcuri, Walter Tobagi, Fabio Isman, Marco Nozza, Gianni Flamini, Camilla Cederna, Massimo Fini e Corrado Stajano su tutti – in grado di mettere in crisi le veline della questura prese per buone da altri loro colleghi. In quel momento, le ipotesi che si addensano sulla morte di Pinelli sono le più svariate e, accanto all’idea della defenestrazione subita dai poliziotti, inizia a circolare la voce – basata su delle incongruenze sull’orario della morte e l’orario in cui venne chiamata l’ambulanza – che Pinelli potesse essere stato ucciso all’interno della questura (c’è chi dice con un colpo di karate) e poi gettato dalla finestra nel tentativo dì simulare un incidente. Simili dubbi, tra l’altro, sono suffragati proprio dall’analisi del modo in cui Pìnelli cadde dal quarto piano. Il corpo dell’anarchico, come testimoniava il giornalista de «l’Unità», venne ritrovato in una posizione perpendicolare alla finestra, senza graffì o fratture che avrebbero dì mostrato il tentativo – istintivo – dì ripararsi il volto con le mani. Guida, inizialmente, si limita a reagire alle perplessità degli scettici quasi strillando: «Avete la fantasia malata, vedete sempre fantasmi, come potete pensare che dei funzionari della Politica di Milano ammazzino di botte uno e oltretutto lo buttino anche dalla finestra?». Subìto dopo, però, il questore cambierà idea fornendo la terza – e ultima – spiegazione ufficiale di quanto accaduto: mentre Pinelli tentava dì buttarsi dalla finestra, i suoi uomini hanno provato in tutti i modi a trattenerlo. E ci sarebbero anche riusciti se non fosse che uno dei poliziotti che abbranca il ferroviere non riesce a mantenere la presa e si ritrova con una scarpa di Pinelli in mano! Il contraddittorio balletto di spiegazioni imbastito dalla questura milanese non giova certo alla credibilità delle istituzioni. Anzi, occorre riconoscere che, se il dubbio di una morte violenta di Pinelli si instilla nella testa dì molte persone, succede perché i rapporti tra cittadini e polizia, in quel momento, non sono dei migliori. L’autorevole Camilla Cederna, tra gli altri, riporta nel suo libro su Pinelli le esperienze dì alcuni fermati – poi risultati innocenti – che, come il ferroviere anarchico, sono stati interrogati in via Fatebenefratelli: Da San Vittore, dove da due anni è detenuto insieme a quattro compagni, Paolo Faccioli (che, come loro, è accusato degli attentati del 25 aprile, e uscirà dopo due anni su richiesta del PM per non aver commesso i fatti), manda una lettera agli amici in cui parla delle sevizie sofferte in questura: tre giorni di interrogatori continui senza mai dormire e sempre in piedi, violenze continuate e minacce. Schiaffi, colpi alla nuca, pugni, gran tirate di capelli e spesso torti i nervi del collo. Il tutto peggiorato dal fatto che lo picchiavano all’improvviso e al buio. Erano il commissario Zagari, i brigadieri Mucilli e Panessa, il commissario Calabresi. [ … ] E Paolo Braschi, detenuto anche lui insieme al Faccioli, [ … ] dice che con le finestre Calabresi ha avuto sempre qualcosa a che fare. «Lo abbiamo anzi soprannominato “comm. Finestra”, e, devo dire, tale nome gli calza a pennello. Ricordo che quando fui interrogato [ … ] mi fece sedere vicino alla finestra aperta (che non ha il parapetto in muratura ma una ringhie¬ra di ferro), e tenendosi a distanza lui ed altri mi provocarono apertamente chiedendomi perché non mi buttassi di sotto» (Camilla Cederna, Pinelli, Feltrinelli, Milano 1971) .
Sarà bene ricordare che, stando alle testimonianze dei presenti (i poliziotti Mucilli, Panessa e Mainardi), Luigi Calabresi non era nella stanza di Pinelli nel momento in cui l’anarchico precipita dal quarto piano di via Fatebenefratelli. Tuttavia sarà proprio sulla sua persona che la controinformazione del movimento, con in testa «Lotta continua», addosserà le responsabilità di quanto accaduto, anche quando, l’11 gennaio del 1970, il commissario rilascia un’intervista a «l’Unità» ammettendo: «Non avevamo niente contro di lui, era un bravo ragazzo, l’avremmo rilasciato il giorno dopo».
Il 28 ottobre del 1975 diventa definitiva la sentenza con cui il giudice Gerardo D’Ambrosio, nel tentativo di risolvere il caso Pinelli, imputa la morte dell’anarchico a un «malore attivo»: una conclusione a cui si giunge dopo aver inscenato ogni sorta di esperimenti con un manichino fatto cadere in tutti i modi possibili e inimmaginabili dalla finestra della stanza in cui l’anarchico era stato interrogato. Secondo il magistrato, in buona sostanza, esisterebbe in natura una speciale malattia senza nome che, in condizioni di particolare stress, può spingere le persone che affligge a ruotare vorticosamente nell’ aria e, nel caso di Pinelli, alto un metro e 65, a compiere un’evoluzione capace di superare una misura superiore dì tre centimetri rispetto alla sua altezza (il parapetto della finestra incriminata è a 1,68 metri da terra), dì sfuggire alla braccia (quelle dei poliziotti) che tentano dì salvargli la vita e, quindi, sotto l’implacabile forza dì questo non meglio clinicamente specificato «malore attivo», precipitare nel vuoto…
Purtroppo un simile ragionamento è francamente incredibile. Purtroppo – se ridere dei morti non risultasse osceno – scatenerebbe l’ilarità più totale in qualunque ascoltatore dotato di buon senso. Tuttavia non bisogna correre l’errore dì sottovalutare la sentenza di D’Ambrosio in virtù di questo particolare. Al contrario, il lavoro del magistrato ha un valore esemplare perché, oltre a riconoscere la totale innocenza dì Pinelli, afferma non soltanto l’illegalità della procedura osservata dai poliziotti ma anche, ed è questo il fatto più grave, che gli uomini al servizio della questura dì Milano avvallarono passivamente la versione dì Guida «perché gradita ai superiori». Com’è possibile che un simile comportamento – l’uso sistematico della menzogna nel pieno della strategia della tensione – sia stato tollerato all’ interno di un corpo dì polizia resta il mistero che, superando la morte di Pinelli e l’omicidio Calabresi, avvolgerà dentro se stesso tutti gli sviluppi legati alla gestione della Strage di Piazza Fontana. Un mistero talmente grande e sanguinoso da far apparire davvero pretestuose le polemiche di chi vorrebbe far rimuovere dai giardinetti dì fronte alla Banca dell’Agricoltura la lapide che gli anarchici hanno posato per ricordare il compagno morto. Un modesto pezzo dì marmo bianco costantemente ricoperto di fiori che, fermando la gente di passaggio, ripete: «A GIUSEPPE PINELLI FERROVIERE ANARCHICO UCCISO INNOCENTE NEI LOCALI DELLA QUESTURA DI MILANO». Una frase sorvegliata da vicino da un’altra lapide, deposta invece dal comune di Milano come per depotenziare il valore del marmo anarchico. Più cautamente, la lapide istituzionale afferma: «A GIUSEPPE PINELLI FERROVIERE ANARCHICO MORTO TRAGICAMENTE NEI LOCALI DELLA QUESTURA DI MILANO».