OGM: una questione di classe!

OGM: una questione di classe!

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Di quando in quando la questione degli organismi geneticamente modificati riaffiora come un fiume carsico nel dibattito pubblico, sono però lontani i tempi (purtroppo, aggiungiamo noi) in cui la lotta alla diffusione e alla sperimentazione delle piante transgeniche si era fatta di massa, arrivando a rappresentare una priorità dell’agenda politica del movimento. Oggi, nel cosiddetto occidente, a dibattere su tali argomenti restano solo gli ascari del profetismo scientifico a cui si contrappongono, in un gioco di specchi, le anime belle dell’ecologismo a-sociale e qualche esponente della sinistra slow food. Così che sempre più spesso capita di assistere, com’è accaduto ai lettori del Corriere in questi giorni, a surreali dibattiti che vedono prendere parola, da un lato i sempiterni “esperti” Boncinelli, Veronesi, Montalcini, ecc. ecc., e dall’altro qualche elegante, illuminata e borghesissima signora che, con un filo di perle al collo, si dice preoccupata del futuro del lardo di Colonnata e delle tradizioni agroculinarie del nostro paese. Eppure la questione degli OGM rappresenta un paradigma incontrovertibile di quella contraddizione Capitale/Ambiente di cui altre volte abbiamo parlato su questo blog;  un terreno su cui il movimento di classe potrebbe e dovrebbe sperimentare alleanze sociali anche inedite e tornare a praticare la solidarietà internazionalista. Basta infatti guardare fuori dai confini tracciati dall’informazione asservita, fuori dai limiti imposti dai media mainstream, per rendersi conto che sono milioni i contadini e i lavoratori della terra, pensiamo a Via Campesina, che continuano a lottare contro il modello di agricoltura “industriale” imposto loro dalle multinazionali del settore. Prima di andare avanti occorre però sgombrare il campo da un equivoco artatamente costruito dagli opinion makers e dagli imbonitori politici. L’opposizione alla diffusione degli organismi transgenici non rappresenta una moderna forma di luddismo né tantomeno un’irrazionale e ascientifica manifestazione di nostalgismo tradizionalista. Tutt’altro. Essa è la critica serrata, razionale e scientifica ad un modello sociale ed economico che si rivela sempre più inefficiente, ingiusto, inquinante e primitivo. Il superamento delle barriere interspecifiche o addirittura tra regni differenti (es. geni animali su organismi vegetali) pone a serio rischio tanto il germoplasma quanto la biodiversità, con costi sociali ed ambientali inestimabili. Quando con l’ALCA (Area di Libero Commercio delle Americhe) è stata permessa l’invasione dei mercati messicani col Mais transgenico prodotto negli USA, non solo si sono ridotti alla fame centinaia di migliaia di piccoli coltivatori impossibilitati a competere con i grossi produttori sussidiati a nord del Rio Bravo, ma si è dato inizio all’inquinamento di una “riserva genetica” fenomenale a cui da sempre hanno attinto contadini e ricercatori. Ogni pianta ha infatti un proprio areale di nascita, una zona in cui si è affermata ed in cui successivamente è stata sottoposta a selezione da centinaia di generazioni di contadini che l’hanno portata ad essere quella che oggi conosciamo. Ed in queste zone tuttora prolificano e si sviluppano i “progenitori” delle moderne piante di interesse agronomico che rappresentano una sorta di banca naturale dei geni a cui poter liberamente accedere per cercare di sviluppare nuove cultivar attraverso ibridazione intraspecifica. Un patrimonio genetico di enorme valore messo a repentaglio dalla possibile (molto probabile) fecondazione ad opera di polline proveniente da piante transgeniche limitrofe. Un processo irreversibile. Per questo ci viene da sorridere quando sentiamo berciare chi, come Bersani, cercando di tenere il piede in due staffe parla di “sperimentazione controllata”. Una definizione che potrebbe aver senso in un ambiente chiuso, limitato, come un laboratorio, ma che perde di qualsiasi significato quando la “sperimentazione” viene operata in pieno campo. Non a caso una delle strategie messe in atto in questi anni dalle multinazionali dell’agrobusiness per convincere i consumatori occidentali restii a mettere nel proprio piatto cibi transgenici è stata proprio quella di sottometterli al fatto compiuto, dichiarando poi “tanto ormai…” (vedi esempio). Oltre alla questione prettamente ecologica ci sono però le enormi ricadute sociali di un processo da sempre collegato alla progressiva privatizzazione dei genomi. Il caso dell’India è, da questo punto di vista esemplare. Migliaia di contadini impoveriti e spinti al suicidio perché costretti ad acquistare sementi che danno vita a piante sterili, così da essere costretti ogni anno a dover comprarne nuovi stock. Ed insieme ad essi: fertilizzanti, anticrittogamici, diserbanti… ovviamente prodotti dalla stessa multinazionale che produce i semi. Per non parlare delle centinaia di “bioprospettori” che setacciano in lungo e in largo i paesi poveri alla ricerca di nuove piante officinali da poter brevettare per poi rivenderle a chi, fino a poco prima, le utilizzava gratuitamente. Ma c’è di più. L’obiettivo ultimo di questa cosiddetta “rivoluzione” è infatti la ricerca della completa destagionalizzazione e deterritorializzazione dell’agricoltura che verrebbe cosi assimilata in tutto e per tutto all’industria manifatturiera. Ossia la possibilità concreta per i giganti dell’agrofarmaceutica di poter decidere volta per volta dove e come produrre senza dover tener conto dei limiti “naturali”, ma soprattutto bypassando eventuali limiti “sociali”. Proprio come una qualsiasi fabbrica di scarpe o di palloni (ogni riferimento alla NIKE è puramente voluto), se uno stato mi impone dei vincoli ambientali, oppure i lavoratori attraverso le lotte riescono ad ottenere salari più alti oppure la legge garantisce il diritto alla sindacalizzazione io valuto i costi e se il mio tasso di profitto viene intaccato prendo baracca e burattini e mi sposto da un’altra parte, mettendo così in competizione diretta (ovviamente al ribasso) lavoratori di paesi differenti. Appunto, una questione di classe.