Il programma comune

Il programma comune

E’ già qualche mese che alcuni esponenti politici propongono una sorta di programma economico condiviso per chi uscirà vincitore dalle elezioni. Un patto che obblighi, chiunque vinca le elezioni, a rispettare determinate linee di politica economica. L’UDC e il PDL lo propongono con più forza, vista la prevedibile sconfitta elettorale, ma anche il PD, nonostante sia più titubante, sembra condividere. Al carrozzone ci sarebbe da aggiungere SEL, che entrerà in parlamento apparentata al PD, e la Lega, che in un modo o nell’altro si riavvicinerà al PDL, soprattutto se questo non riuscirà a trovare un accordo con l’UDC.

Sarebbe la formalizzazione di un processo in atto da diversi anni. La progressiva perdita di potere delle assemblee elettive e dei governi ha di fatto esautorato ogni margine politico degli stessi. Le decisioni che contano vengono prese altrove, in luoghi non politici, e la democrazia sostanziale di un paese lasciata agli strettissimi margini di un governo che può decidere sulle coppie di fatto, sulla procreazione assistita, sulle tasse sulle bevande, ma non su come spendere i propri soldi. La diretta conseguenza della scomparsa della divisione politica destra-sinistra nei parlamenti europei. Inoltre, la scomparsa della rappresentanza politica, che si dissolverebbe non in una rappresentanza più allargata o più diretta, ma in una assenza della stessa, che lascerebbe campo a ogni potere economico di imporre direttamente il proprio modo di produzione senza contrattazione sociale e/o politica.

Destra e sinistra sono concetti legati a due diverse visioni della politica economica. Sono anni che, non solo noi ovviamente, andiamo dicendo che in parlamento è rappresentato un unico grande polo politico-economico, con le sue frazioni e le sue divisioni, ma tutte interne a una visione del mondo liberale/liberista. Accanirsi, o anche solo provare interesse, per l’uno o l’altro degli eletti, fa solo il loro gioco. Cioè quello di creare delle finte divisioni fra chi in realtà è più unito che mai. Anche il più onesto e sinceramente impegnato dei parlamentari, sarebbe quantomeno inutile, rientrando a forza nello schema.

Se un governo non può decidere come spendere i suoi soldi, quanti guadagnarne, quanti risparmiare e quanti spenderne, come allocare le sue risorse, non è un governo. E’ un amministrazione, come infatti viene definito il governo statunitense. Amministra, cioè, le risorse stabilite da altre parti. Non è un caso che il governo di Washington viene definito così. Ogni singolo stato americano ha un proprio parlamento, un proprio governo, una propria polizia, propri enti e istituzioni “sovrane”. Ma non può decidere nulla dal punto di vista economico, se non quei margini che vengono decisi dal centro.

Un’ottima discussione avvenuta in calce al post vaffanculo a De Coubertin centrava, secondo noi, il percorso e gli obiettivi della politica economica europea. Questa, divisa in stati, è ancora troppo influenzabile politicamente. Nonostante i grandi progressi compiuti in tal senso, gli obiettivi prossimi venturi vanno tutti in una decisa accelerazione di tale processo. A cominciare col grande obiettivo di medio termine: l’unione fiscale. Se questa andrà in porto, infatti, a decidere come e quante tasse far pagare ai lavoratori e alle imprese non saranno più i parlamenti e i governi dei singoli stati, ma direttamente la commissione europea. Non è un problema di dimensioni, ma di sostanza. Mentre in uno stato sovrano è la rappresentanza politica eletta che determina i modi di raccolta e allocazione delle risorse economiche, nel caso in cui decidesse la commissione europea sarebbe quest’organo, non eletto e non politico, a decidere come spendere i soldi dei lavoratori europei. Se queste non dovessero andarci bene, non avremmo più un riferimento politico (ad esempio il governo) con cui prendercela. Non avremmo neanche più il formale strumento del voto per mandarli a casa.

Ovviamente, la questione sarebbe risolvibile creando una sorta di superstato europeo, con proprie assemblee politiche, un suo governo, strutture sociali comuni, ecc…così da trasformare le attuali strutture economiche non elette in strutture politiche. La cosa, prim’ancora di essere improbabile in tempi decenti, sembrerebbe impossibile anche teoricamente. Manca una lingua comune, e senza lingua condivisa non si capisce perché un candidato polacco dovrebbe essere anche solo capito da un cittadino greco, o uno portoghese esserlo da un lavoratore svedese. Manca una cultura comune: nonostante il nostro essere tutti quanti europei, ogni stato ha le sue caratteristiche, le sue strutture e le sue necessità.

Lo stato più popoloso eleggerebbe sempre più rappresentanti di quello meno popoloso, perché il candidato italiano difficilmente andrebbe a fare campagna elettorale in Irlanda, e viceversa, per cui l’elettore italiano conoscerebbe e voterebbe solo in base alle divisioni politiche nazionali e non a quelle sovranazionali (a parte una probabile minoranza della popolazione). Determinando il fatto che ogni stato vota i suoi connazionali, così chi ha più popolazione ha più rappresentanti. Non ultimo, il fatto che una campagna elettorale di tali dimensioni potrebbe essere svolta unicamente grazie al supporto dei grandi media informativi, che ovviamente rimarrebbero accessibili solo a chi è già dentro al sistema e mai da chi ne è fuori (se non come notizie di costume o curiosità).

Concedendo anche una sua possibile realizzazione, richiederebbe diversi anni. Decenni, probabilmente. Tutto questo, a fronte di un’unione fiscale che invece è prossima a realizzarsi. Uno, forse due anni, ma la direzione intrapresa è evidente e tecnicamente facile da strutturare. Tutto questo creerebbe un deficit di democraticità evidente. Renderebbe impossibile qualsiasi condizionamento politico sulle scelte economiche, influenzate a quel punto solamente dal potere dei mercati finanziari (cosa che già sta accadendo). A decidere come destinare le risorse non saranno più i cittadini (tramite il voto) che le hanno determinate, ma i mercati attraverso le loro oscillazioni. Chiaramente, questo “potere” dei cittadini negli anni è sempre più stato resto formale e sempre meno sostanziale, ma in questo modo verrebbe meno anche l’eventuale possibilità teorica. Se lo spread sale, lo stato sociale dimagrisce. Insomma, un fenomeno che abbiamo cominciato a vivere in questi anni, ma che col patto economico condiviso, e con la futura unione fiscale, verrebbe certificato e formalizzato. Un problema, quello dell’europeismo, su cui dovremmo iniziare a riflettere. Per anni abbiamo dato per scontato che un’integrazione europea fosse auspicabile e sicuramente migliore della sovranità statale otto-novecentesca. Ma la direzione intrapresa da chi questa unione la sta costruendo dovrebbe farci riflettere, e porci più di qualche semplice riflessione che abbiamo qui abbozzato.