Quel 24 maggio

Quel 24 maggio

 

Cent’anni fa, l’Italia entrava in guerra e apriva le porte alla modernità, con tutto il carico traumatico di 600.000 morti durante il conflitto e l’enorme contraddizione del dopoguerra, che sfociò nel biennio rosso e nella fondazione del Pci prima, nel fascismo e nella Seconda guerra mondiale dopo. E’ l’evento per eccellenza che apre il secolo breve, la data di fondazione del moderno Stato italiano, ben più del Risorgimento e paragonabile solo alla guerra partigiana come atto fondativo di un nuovo tipo di società. Relegare tale memoria alle destre e alle istituzioni, per lo più militari, è un errore che non avremmo dovuto correre. Abbandonato il campo della Storia, non ci rimane che destreggiarci nella piccola e grande memorialistica dei dannati che morirono per mano imperialista. Eppure anche dalle nostre parti il 24 maggio andrebbe ricordato, perché buona parte di ciò che venne dopo, in Italia come in Europa e in Russia, lo si deve a quell’evento, allo scoppio della guerra. Una guerra che smantellò mezzo secolo di finta pacificazione, di tensioni coloniali, di macelleria sociale, di migrazioni. L’evento che ebbe il merito di smascherare il volto di un capitalismo sempre meno in grado di risolvere pacificamente la propria naturale contesa economica. Rievocare quel trauma può essere doloroso, anche politicamente, ma in tempi di rapido riarmo e di costante tensione bellica, tornare a ragionare sulla Prima guerra mondiale sarebbe assai utile. Non solo perché lo scenario attuale assomiglia pericolosamente agli anni precedenti il 1914: oggi come un secolo fa, la continua serie di guerre asimmetriche (le aggressioni coloniali), valvola di sfogo di un espansionismo economico sempre più a corto di territori e popolazioni, impedì di cogliere la preparazione della guerra simmetrica, quella fra potenze similari. Anche oggi, una serie di conflitti periferici e tra attori asimmetrici nasconde il possibile sbocco di una guerra tra Stati di pari forza. Oggi come allora non sembra essere dietro l’angolo, ma oggi come allora il casus belli potrebbe essere un episodio irrilevante, ma capace di deflagrare l’equilibrio estremamente precario che regge la pace internazionale tra Stati occidentali.

Anche dal punto di vista economico la specularità risulta addirittura immediata. Oggi come allora la mancata valorizzazione del capitale lavorava verso l’aumento dell’insofferenza tra politiche economiche concorrenti. La contraddizione principale del capitalismo, che rappresenta un modello produttivo che tende all’infinita produzione di bisogni, desideri e merci inserito però in un sistema finito, cioè la terra, se fino alla Grande guerra poteva essere risolta dall’espansione coloniale, oggi non ha neanche quella come ultima chance di rigenerazione. Senza sbocchi esterni, i capitali tendono ad eliminarsi a vicenda. Questa è la costante storica del capitalismo, ed oggi siamo immersi totalmente in una fase di impossibile valorizzazione di capitali, motivo per cui, almeno oggettivamente, le condizioni per uno scontro più che simulato ci sarebbero tutte.

Non va infine dimenticato che il conflitto, tanto in Italia come nel resto del continente, rivitalizzò le sorti della sinistra rivoluzionaria ben più del sindacalismo in cui si contorceva la sinistra dell’epoca. La guerra impose la nazionalizzazione delle masse, perché solo attraverso processi d’inclusione sociale fu possibile evitare una rottura rivoluzionaria che era dietro l’angolo in tutto il contesto europeo, e che infatti avvenne in Russia prima e in Germania, Austria, Cecoslovacchia dopo, anche se non con la forze che ebbe nel futuro Stato sovietico. Se già dall’Ottocento lo Stato nazionale era in costruzione, è solo dopo il primo conflitto mondiale che diviene necessaria un’accelerazione in tal senso. La nazione costruita su nuove basi – non più democratiche ma più inclusive – divenne il campo da occupare per le forze della sinistra, che costrinsero le destre liberali a reinventarsi, sperimentando quelle forme autoritarie che poi s’imposero in Italia e in Germania.

Oggi che la direzione di marcia è la snazionalizzazione della società, difficilmente la guerra assumerà le forme che questa ha avuto nel Novecento. La storia può indicare delle linee di tendenza ma non riprodursi tale e quale. Per questo va studiata e interpretata, ma mai abbandonata. Il silenzio della sinistra di classe sulla Prima guerra mondiale ci parla di questo abbandono.

In memoria del comandante Mozgovoy, comandante del Battaglione Prizrak, caduto sul campo lottando per il socialismo.