Visioni Militant(i): La isla mìnima, di Alberto Rodriguez

Visioni Militant(i): La isla mìnima, di Alberto Rodriguez

 

La storia della Spagna è rivelatrice di un continente, ne è la sua coscienza sporca non metabolizzata. E’ importante per vari motivi: per aver vissuto la tragedia della guerra civile, dove si produsse lo scontro più compiuto tra fascismo e antifascismo, e in cui la democrazia liberale scelse coscientemente di stare dalla parte della reazione; per la presenza di un sistema autoritario para-fascista perfettamente tollerato nel cuore dell’Europa del dopoguerra; per la combattiva presenza di alcuni dei movimenti rivoluzionari più incisivi dell’Europa occidentale, in particolare la lotta di liberazione del popolo basco. Qualche anno fa lo storico Elio Apih si domandava se fosse la Risiera di San Sabba il nostro passato che non passa, indicando con questo la nostra mancata resa dei conti con il nostro passato fascista e lo sterminio degli ebrei. Ebbene, dovremmo chiederci se sia davvero la Spagna franchista il passato rivelatore dell’Europa liberale. Purtroppo, il passaggio dal franchismo alla democrazia è avvenuto pacificamente proprio perché alla base del cambiamento venne posto l’oblio consapevole sulle responsabilità della guerra civile e dei successivi quarant’anni di dittatura reazionaria. Se da un lato ha consentito un passaggio alla democrazia liberale incruento, dall’altro ha posto le condizioni per un riposizionamento pressoché totale della classe dirigente del paese, che infatti ha reso la Spagna una democrazia incompiuta. Torture e repressione sono continuate durante la transizione democratica e successivamente; il ruolo della monarchia e dell’esercito mai messo davvero in discussione; i rapporti politici costantemente segnati dal dogma del centralismo colonialista. Per questi e altri motivi, dunque, la storia della Spagna s’interseca con la storia d’Europa più di quanto la nostra coscienza storica possa percepire a prima vista, ne rivela la sua natura corrotta, contigua tra liberalismo anglosassone e autoritarismo reazionario. Come dicevamo, purtroppo non sono molti i lavori spagnoli, in campo storiografico e anche artistico, capaci di chiarire il senso profondo di questa contiguità. Per lunghi anni, e ancora oggi, il tacito accordo era nella condanna speculare tanto dei torturatori quanto dei torturati, tanto dei reazionari al potere quanto dei rivoluzionari antifascisti, o anche condanna del nazionalismo tanto spagnolo imperialista che basco o catalano indipendentista. La isla mìnima è un noir spagnolo che nelle premesse vuole affrontare anche tali questioni, la vicenda della transizione incompiuta nel significato sociale che questa assume, nei rapporti personali e di micro potere. L’obiettivo in effetti è alto, soprattutto fatto quarant’anni dopo la morte di Franco e l’avvio della democratizzazione. Fuori tempo massimo dunque? Assolutamente no, anche se più passa il tempo più servono strumenti culturali e  politici in grado di attualizzare un discorso apparentemente anacronistico. E tali strumenti sono presenti sempre meno nel panorama artistico contemporaneo.

Il film racconta la vicenda di due poliziotti madrileni chiamati a risolvere un caso nelle paludi andaluse del Guadalquivir: la scomparsa di due ragazze in un piccolo paese di provincia, rimasto ineffabilmente legato ai valori e ai rapporti di potere del franchismo. I due poliziotti sono la personificazione delle due Spagne degli anni ’80. Da una parte la vecchia Spagna legata al franchismo, dall’altra la generazione cresciuta dopo la morte di Franco e fremente di cambiamento e di democrazia. Il contesto sociale quello di un paesaggio immutato e, apparentemente, immutabile, almeno nei tempi brevi. Un paese e una mentalità che avrebbero potuto sopravvivere prima del franchismo, durante, e che probabilmente continueranno a persistere dopo la fine della dittatura. Una mentalità fatta di machismo, subordinazione al potere militare o ecclesiastico, assuefatta ai rapporti padronali semi-feudali, avversa pare antropologicamente al cambiamento. In tale contesto, la lotta dei poliziotti non sfida solo le difficoltà del caso in questione, ma la mentalità generale, ed è anche una lotta tra i due protagonisti simbolo di due mentalità (apparentemente) opposte. Nonostante le premesse, il film ci sembra però un appuntamento mancato. L’ambizione elevata del regista, quella di utilizzare un poliziesco per “parlare d’altro”, ci sembra fermarsi alla superficialità dei comportamenti e della mentalità sociale, senza mai scavare davvero in profondità nelle cause determinanti. Partiamo dal principio. La storia e i personaggi sembrano ricalcare eccessivamente la serie tv statunitense True detective. La palude come scenario di sottofondo, se nella serie tv era efficace come elemento simbiotico di una mentalità perversa, in questo caso produce solo confusione. E’ la palude o il franchismo a modellare la società della provincia spagnola, le sue ossessioni, la sua alienazione? Nelle premesse e in alcune parti del film dovrebbe essere il franchismo, ma tutto il film ruota attorno al rapporto perverso tra il torbido della palude e quello della mentalità di provincia. Insomma, in True detective la palude funziona come rimando, qui sembra sovrapporsi al tema centrale straniando lo spettatore.

Anche il rapporto tra i due detective sembra ricalcato pedissequamente sulla serie tv americana. Il vecchio poliziotto più superficiale e schietto, dai modi rudi e dai valori solidi e “tradizionali”, opposto al giovane chiuso, tenebroso, problematico e mai soddisfatto. Il parallelo con Matthew McConaughey e Woody Harrelson (i due protagonisti della serie tv) è troppo smaccato e perde di valore se riproposto così platealmente. E’ un elemento ricorrente della narrativa, ma vanno trovate soluzioni in grado di riaggiornarlo continuamente sennò, come detto, perde di valore.

L’obiettivo dell’autore, cioè raccontare attraverso un poliziesco la Spagna che cambia (o non cambia), è il cuore del film. Anche in questo caso, complice una sceneggiatura purtroppo debole in molte parti, la questione viene affrontata superficialmente e artificiosamente. Il franchismo che non passa emerge da qualche scritta sui muri, dai cappelli della Guardia civil, da qualche crocefisso di troppo sui muri. Un po’ poco, e soprattutto un po’ troppo fondato su un’estetica del franchismo che serve poco a comprendere la reale portata della dittatura e della sua conseguente mentalità. Sono però presenti momenti potenzialmente efficaci, soprattutto quando si instaura una relazione tra la scomparsa delle ragazze e il padrone dell’azienda agricola che, oltretutto, sembrerebbe trafficare anche in droga sfruttando la palude di cui è il padrone assoluto. E’ questo il cuore del ragionamento, il rapporto perverso tra possesso dei beni garantiti dal sistema produttivo franchista basato su rapporti semi-feudali, caporalato e lavoro a cottimo; possesso della donna trattata appunto come un bene sfruttabile privo di identità autonoma; e sfruttamento dell’economia illegale, che compendia in tutto e per tutto l’accumulazione di ricchezza del cacicco locale simbolo del potere franchista. E’ *il tema*, perché è tale dinamica perversa che continua durante la transizione e anche dopo, la commistione capitalistica di economia legale illegalizzata ed economica illegale legalizzata, questione centrale che poi produce a cascata i rapporti di micro potere sociali, come il ruolo dell’esercito e della polizia, la subordinazione al potere costituito, il maschilismo parossistico, eccetera. Tema che però viene sfiorato in superfice e non colto in pieno nella sua capacità di strutturare una mentalità padronale anche nei soggetti subalterni, riproposta in famiglia, nei rapporti amicali, nella scuola, tra fidanzati, eccetera. Alla fine il film si riduce ad una lotta tra i poliziotti e il colpevole della sparizione, che però non rimanda ai rapporti padronali di cui sopra ma esclusivamente a uno standard poliziesco ormai abusato. Non ci spingiamo oltre per non rovinare la possibile visione. Concludiamo dicendo che non di un brutto film si tratta, ma un film lasciato in sospeso, dove la trama principale, nonostante sia godibile, non riesce mai ad essere sfruttata per l’obiettivo vero del regista, quello di raccontare un pezzo di società. Non era facile, anzi, è maledettamente difficile raccontare da spagnoli il trauma della dittatura e del passato che non passa, dei rapporti tra capitalismo liberale e capitalismo autoritario, e della mentalità padronale che questo impone ai soggetti sfruttati nelle province più derelitte. Era un’ottima occasione, ed è un peccato che sia stata mancata.