Senza Stato: la fine della soluzione due popoli due stati?

Il testo “Senza Stato” di Rosalba Belmonte, ricercatrice di sociologia politica, rappresenta il tentativo riuscito di comprendere come mai a oltre trent’anni di distanza dalla firma degli accordi di Oslo (1992) non abbia ancora visto la luce lo Stato palestinese, che avrebbe dovuto nascere sui confini stabiliti da quegli accordi. La scelta dell’autrice è stata quella di utilizzare dati e ricerche provenienti da varie fonti per poi aggiungervi interviste a vari esponenti e militanti del movimento palestinese.
Il libro, articolato in cinque capitoli, si apre con un’analisi storica di quella che è oggi considerata la “Palestina”, partendo da uno studio storico-semantico dell’idea di Palestina per poi passare a verificare cosa siano oggi i territori che dovrebbero costituire lo Stato palestinese, che includerebbe la Cisgiordania, Gaza e la parte Est di Gerusalemme. Un focus particolare è rivolto allo studio dell’OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina) che è il soggetto che firmò gli accordi di Oslo, che hanno determinato la creazione dell’ANP, l’autorità che per un periodo transitorio, che originariamente sarebbe dovuto durare 5 anni ma che in realtà dura tutt’ora, avrebbe dovuto amministrare il territorio palestinese in attesa della sua trasformazione in uno Stato indipendente.
All’Anp è stato attribuito il compito di amministrare il 22 per cento della Palestina storica ma, come sottolineato correttamente dall’autrice, le debolezze della leadership palestinese, unite al sostegno internazionale pressoché assoluto a Israele ha prodotto non uno Stato indipendente ma uno Stato cliente di Israele, uno Stato che non può riscuotere tributi, non ha una propria moneta e che deve coordinare le proprie forze di sicurezza con quelle israeliane affinché i coloni che occupano zone che non dovrebbero (i cosiddetti territori occupati) possano agire indisturbati.
Il sistema politico attualmente in vigore si basa sull’elezione diretta del Parlamento e del Presidente ma la vittoria elettorale di Hamas nelle elezioni del 2006, le ultime che si sono svolte in Palestina, ha fatto sì che il presidente Abbas potesse dichiarare lo Stato di emergenza, potendo così non riconvocare più il Parlamento; in più le pressioni esterne che provengono da Israele, che in qualsiasi momento può bloccare i flussi di pagamento verso l’ANP hanno determinato la forma di una statualità estremamente debole, che oltretutto non può esercitare il suo controllo né sulla parte di Cisgiordania occupata dagli insediamenti ebraici né su Gerusalemme Est.
Di particolare interesse è l’attuale situazione in Cisgiordania: un numero crescente di persone sono diventate dipendenti della pubblica amministrazione dell’ANP, pertanto hanno potuto accedere a prestiti e mutui agevolati, ciò li scoraggia dall’intraprendere azioni di protesta contro il governo israeliano, che potrebbe in qualsiasi momento bloccare i flussi di pagamento verso l’ANP e di conseguenza privarli della loro fonte di sostentamento. Tutto ciò aggravato dal fatto che si sono create polarizzazioni tra coloro i quali sono titolari di un’ impiego pubblico (circa un terzo della popolazione) e coloro che ne sono esclusi, tra coloro che sostengono l’attuale leadership palestinese e coloro, una maggioranza, che vi sono sfiduciati o apertamente ostili.
Per quanto concerne gli ostacoli alla formazione di uno Stato palestinese l’autrice ne evidenzia di interni ed esterni: nel primo caso si tratta del fatto che vi siano enormi disparità tra i palestinesi che abitano a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est e la frammentazione politica, che è frutto sì della spaccatura presente tra Fatah e Hamas ma anche del fatto che lo scenario politico palestinese è attraversato da 14 partiti politici, con obiettivi e strategie spesso molto divergenti tra di loro; mentre sugli ostacoli esterni si evidenziano il ruolo dell’occupazione israeliana, che impedisce che si definisca esattamente un territorio palestinese, prodromico di una statualità indipendente, l’interesse di Israele a mantenere lo status quo, e a impedire fermamente che nasca uno Stato palestinese ai propri confini e infine la perdita di centralità della questione palestinese, che ha “rivisto la luce” solo dopo il 7 ottobre, oltre ovviamente al sostegno internazionale alle politiche criminali di Israele.
Il territorio palestinese viene visto dall’autrice come elemento fondamentale per lo state building. Esso non rappresenta unicamente l’elemento centrale per la formazione di uno Stato palestinese, perlomeno nei confini riconosciuti del 1967, ma anche il tema su cui aggregare la popolazione palestinese, oggi dispersa in territori che non hanno tra di loro continuità politico-territoriale anche dal punto di vista simbolico. Per esercitare il proprio controllo sul territorio l’ANP è costretta però a coordinarsi con l’esercito israeliano, finendo così spesso per reprimere le proteste del popolo palestinese contro le politiche di Israele piuttosto che tutelare la sua sicurezza nei confronti dello stesso; ad aggravare il quadro è la crescente divaricazione tra coloro i quali lavorano direttamente o indirettamente nel processo di formazione dello “Stato” palestinese e coloro che invece difendono il progetto di liberazione nazionale.
Molto interessanti sono i dati sulle spese che l’ANP sostiene ogni anno: circa il 50 per cento del budget statale se ne va per pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici, di essi quasi la metà sono appartenenti alle forze armate, a dimostrazione di quanto le politiche pubbliche definiscano più che altro forme di consenso interno e di clientelismo piuttosto che investimenti per migliorare la condizione di vita della popolazione più in difficoltà, ciò determina una crescente sfiducia nei confronti delle autorità palestinesi, anche a causa dello stato di emergenza introdotto a partire dal 2007, a seguito della vittoria di Hamas alle elezioni legislative e a causa del fatto che ogni volta che si innescano tensioni Israele reagisce bloccando gli aiuti e costringendo l’ANP a ritardare il pagamento degli stipendi.
Rimane da spiegare dunque quale tipo di Stato palestinese potrebbe emergere dal quadro descritto in precedenza. L’emersione di uno strato privilegiato legato ai funzionari pubblici dell’ANP, fa da contraltare alla situazione disastrosa in cui vivono la stragrande maggioranza dei palestinesi. Nel frattempo gli Stati uniti, principali sponsor di Israele nel Medioriente, hanno prima riconosciuto con Trump Gerusalemme come capitale di Israele e poi con Biden hanno tagliato i fondi all’agenzia ONU che si occupa degli aiuti umanitari ai palestinesi. Nessuno degli elementi necessari affinché lo Stato palestinese possa prendere forma sembra essere alla portata: dovrebbero ritirarsi gli israeliani dai Territori occupati e lo Stato palestinese dovrebbe avere piena autonomia politica, economica e militare. Alla luce di ciò l’autrice prospetta come possibile soluzione quella di uno Stato unico bi-nazionale, che riprenderebbe il territorio della Palestina “storica”, ovviamente non dovrebbero esserci discriminazioni tra i cittadini, come oggi avviene in Israele, e dovrebbe esserci la piena libertà di circolazione. Tale soluzione, sebbene di molto complessa realizzazione, sembra comunque più fattibile dell’attuale scenario, che ha dimostrato chiaramente il fallimento degli accordi di Oslo.