e allora classe operaia e non religione…SIAMO NOI.

RUDE RAZZA PAGANA

Raramente ci capita di condividere quanto scritto sulle pagine di Repubblica, esistono però delle eccezioni che confermano le regole, e l’articolo che riproduciamo di seguito rappresenta, per l’appunto, una di queste eccezioni.

LA CLASSE INVISIBILE ALLA RICERCA DI UNA VOCE

Le immagini degli operai che salgono su ciminiere alte 170 metri per restarci intere giornate, o su una gru, oppure occupano una fabbrica che ha annunciato il loro licenziamento, sono scorci di una realtà ignota ai più, frammenti che si intravvedono per un istante attraverso una finestra che viene subito richiusa. Sono immagini d’una condizione di vita e di lavoro che sebbene coinvolga ancor oggi milioni di persone è virtualmente ignota a tutto il resto della società. Scatti fotografici d’una classe sociale che resta altrimenti invisibile. Aver reso socialmente invisibile il lavoro degli operai come insieme, come classe sociale, è uno dei tristi successi della società italiana degli ultimi decenni. Al presente, per gli uomini politici, compresi molti di sinistra, parlare degli operai come classe sembra un frusto ritornello, un indugiare su un passato irrecuperabile. Perfino a molti sindacalisti non sembra un argomento su cui insistere; temono, a volte con ragione, di non essere più votati. Da parte loro le scienze economiche e sociali si sono impegnate soprattutto a scrutare l’avvento del post-industriale, o meglio della società della conoscenza, quel luogo radioso dove più nessuno si sporca le mani nè si rompe la schiena dalla fatica perché tutte le merci sono prodotte dalle macchine. Oppure da qualcuno in Cina o in India che anche se guadagna quattro euro al giorno e lavora settanta ore la settimana deve dir grazie, perché prima – ci assicurano – stava peggio. Pure ai narratori ed ai registi la classe che doveva andare in paradiso da tempo non interessa più. Rende maggiormente, anche sotto il rispettabile profilo della fama, occuparsi di crisi: non di quella economica, bensì degli adolescenti, dei quarantenni, delle famiglie di città o degli amori di provincia. Di operai parla abbastanza spesso la TV. Quasi ogni giorno ci informa che qualcuno è morto cadendo dal tetto o calandosi in una cisterna o venendo travolto da un carrello mentre lavorava sui binari. Un po’ più di rado ci informa che tot persone sono decedute perché hanno respirato amianto o altre sostanze nocive per decenni. Ma parla di questi come fossero sgradevoli eventi individuali, anziché elementi costitutivi della vita di tutti coloro che fanno parte, lo gradiscano o no, di una comunità di destino – che è il significato antico e perenne di classe sociale. Eppure gli operai sono ancora tanti. Più o meno sette milioni, circa la metà nel settore manifatturiero e gli altri sparsi tra trasporti, costruzioni, industrie della conservazione, agricoltura e servizi vari. Nemmeno in un supermercato, quintessenza del terziario, i prodotti si collocano da sé negli scaffali, né le camere si rifanno da sole in un hotel. Quel che accomuna questa massa di persone, legandole materialmente a un destino collettivo, sono una serie di situazioni che basterebbero a riempire l’agenda politica di qualsiasi forza riuscisse ancora a vederle. In termini reali, le loro retribuzioni sono quasi ferme da oltre dieci anni, ovvero sono aumentate in misura minima rispetto agli altri paesi della Ue a 15. In rapporto al Pil, hanno perso in vent’anni tra 8 e 10 punti percentuali rispetto alle rendite e altri redditi da capitale. Si tratta di decine di miliardi di euro l’anno che sono andati ad altre classi sociali. A forza di riforme del sistema previdenziale fondate, più che sui bilanci effettivi dell’Inps o sull’andamento reale del rapporto tra attivi e inattivi, sull’accusa di ostinarsi a vivere più a lungo, vanno incontro a pensioni da poveri. Non bastasse, adesso la crisi ha posto questa massa di persone, grazie anche alle riforme più che decennali del mercato del lavoro, dinanzi a un aspro scenario: molti lavoratori che contavano su un’occupazione stabile l’hanno persa o stanno per perderla. Molti disoccupati non troveranno lavoro per anni. Una quota rilevante di essi non lo troverà mai più. Le immagini degli operai che protestano, in forme nuove o tradizionali che siano, se uno guarda bene, hanno nello sfondo queste situazioni. Comuni a tutti loro. Se un politico vi dice che le classi sociali non esistono più, suggeritegli cortesemente di cambiare mestiere.

Luciano Gallino