Vecchi errori e nuovi abbagli: il risiko libico

Vecchi errori e nuovi abbagli: il risiko libico

Sono giorni che leggiamo, nel dibattito che si è aperto intorno alla questione libica e alla “guerra umanitaria”, prese di parola fra le più disparate. Il tutto, inquadrato in due mesi di ribellioni nell’area geografica del nord africa, che ha avuto la funzione di detonatore di coscienze nella sinistra, soprattutto nella sinistra italiana. Di momenti di approfondimento ne abbiamo avuti tanti anche noi, non solo su questo blog, ma ogni giorno la lettura dei giornali ci spinge sempre più vicino al baratro nel quale stiamo, collettivamente, precipitando. Neanche la guerra in Kossovo e l’aggressione militare alla Serbia di Milosevic ebbero questo ruolo fondamentale nel dividere le coscienze della sinistra. Almeno, in quel frangente il danno prodotto dalla “sinistra” di governo non venne raccolto dalle sinistre di movimento e di piazza, che invece trovarono una unità che altrove non sarebbe stata possibile. Non è così adesso. La faglia che si sta aprendo al nostro interno rischia di essere incolmabile, soprattutto nel futuro prossimo, visto che, come pensiamo, questa guerra non costituisce un intervento “umanitario” come altri già visti, ma l’inizio di un nuovo e per certi versi inedito modus operandi dell’occidente nelle aree non controllabili del pianeta. Detto questo, dunque, ritorniamo nuovamente sull’argomento per spiegare brevemente quali sono le nostre posizioni in merito; posizioni che saranno affrontate più adeguatamente giovedì 24 nell’iniziativa promossa insieme a Radio Città Aperta e al comitato Palestina nel Cuore nella sede di Carta a San Lorenzo. Cercheremo di essere il più sintetici possibile, perché questa presa di posizione avviene dopo decine di interventi volti a cercare di capire cosa si stia muovendo in quei territori. Quindi non partiamo da zero.

La cosa più evidente che ci viene in mente è il tentativo di interpretazione, da parte della sinistra, delle rivolte nord africane come di un movimento omogeneo e sostanzialmente eguale in ogni contesto in cui si è riprodotto. Invece, come noi crediamo, non solo tutte le rivolte avvenute differiscono le une dalla altre, per cui la Tunisia non è l’Egitto, questi non è il Bahrein, che a sua volta non è lo Yemen o la Giordania. Ma soprattutto, tutti questi contesti differiscono notevolmente da ciò che sta succedendo in Libia. Per spiegarci in poche battute: nel Bahrein, per fare un esempio, è in corso una guerra fra la minoranza sciita, risiedente a ridosso della regione più ricca economicamente del paese, e la maggioranza sunnita per il controllo di centri petroliferi regionali; il tutto, in un contesto di vicinanza con la minoranza sciita dell’Arabia Saudita, che confina con queste regioni e con i ribelli sciiti del Bahrein. Il tutto, con la supervisione dell’Iran, il grande padre a cui tutte le minoranze sciite del medio oriente fanno riferimento. Notiamo una certa contraddizione fra l’appoggiare queste rivolte e poi magari appoggiare i giovani studenti dell’onda verde iraniana che chiedono la testa di Ajmadineijad. Delle due l’una, o appoggiamo gli uni, e quindi anche il succitato presidente iraniano, o rimaniamo criticamente e coscientemente in attesa di capire come evolvono gli eventi. Per proseguire con gli esempi, notiamo anche una certa diversità evidente fra le rivolte in Tunisia e quelle in Egitto. Nel territorio tunisino è stata importante la presenza di un partito comunista, da subito al centro delle mobilitazioni che hanno portato alla cacciata di Ben Alì. In Egitto la piazza si è invece subito contraddistinta per non avere riferimento politici, sia materiali che ideali. Potremmo proseguire con gli esempi, ma non è questo l’aspetto centrale che vorremmo sottolineare, quanto piuttosto l’inadeguatezza di una riflessione che giudichi queste rivolte come movimenti similari. Non sono simili per niente, per quanto anche noi abbiamo cercato di rilevarne gli aspetti che le univano più di quelli che le differenziavano. Detto questo, tutti questi movimenti ribelli differiscono grandemente da ciò che invece aveva cominciato a muoversi in Libia. Per cui, non possiamo interpretare gli eventi libici con gli stessi occhi e con la stessa predisposizione con cui leggevamo ciò che stava accadendo nel Mashrek.

Lo stato libico, lo diciamo in volata senza avere la presunzione di essere divenuti adesso esperti di cose maghrebine, è una entità statale, come noi possiamo intendere questa definizione, solo su carta. Creata artificiosamente dal colonialismo italiano nel secondo decennio del novecento, questo territorio si è sempre contraddistinto per essere la somma di tre macro regioni non solo diverse fra loro, ma in perenne conflitto: il Fezzan, la Tripolitania e la Cirenaica. Non possedendo istituzioni neanche lontanamente paragonabili a qualcosa simile al potere costituito, i centri di potere che governano queste regioni hanno i loro riferimenti nei clan, o in tribù, che fungono da sostituto naturale alle istituzioni statali o para-statali. Questo agglomerato di tribù (o come vogliate definirle) risiedenti in territorio libico non rispondono ad un potere statale superiore. Semplicemente, una volta giunto al potere Gheddafi, il gruppo di famiglie controllanti la Tripolitania ha represso i gruppi di potere stanziati nella altre regioni. Quello che però non è riuscita ancora a comprendere la sinistra europea è che le tribù che oggi stanno portando avanti la guerra a Gheddafi non hanno niente di più democratico o progressivo rispetto alle tribù invece rimaste fedeli al raìs.
Detto questo, nel contesto di generale ribellione al potere costituito avvenuto in nord africa, i gruppi di potere avversi a Gheddafi hanno cavalcato l’onda delle proteste per portare avanti la battaglia finale al despota, ammantando la guerra civile di superiori intenti quali la democrazia o le libere elezioni. In tutto questo, è evidente che una parte (piccola) di società civile è presente all’interno delle proteste contro il regime. Ma, prima di tutto, è una parte che non determina ciò che sta succedendo, ma si accoda spontaneamente ad una protesta che negli intenti di chi la promuove è ben diversa da chi invece sta lì per reclamare sinceramente “democrazia”. Secondo poi, così come è presente un pezzo di società civile fra chi manifesta contro il regime, ne è presente un altro eguale e contrario fra chi invece ancora appoggia il dittatore libico. Dunque, la lotta non è fra una società civile stufa di 42 anni di regime e un cumulo di sgherri stranieri pagati da Gheddafi, ma fra due (o più) centri di potere raccolti in tribù che sfruttano il proprio pezzetto di società civile per rendere più presentabile ciò che in fin dei conti vogliono: il controllo delle risorse energetiche.
Più ancora, e questo è un punto dirimente che ancora fatichiamo a comprendere nelle riunioni della sinistra contro la guerra: l’intervento “umanitario” non sta avvenendo sopra le teste dei ribelli, sovra determinando una ribellione spontanea mettendo il classico cappello occidentale. Al contrario, sin dal primo giorno, e anche prima, i cosiddetti ribelli di Bengasi hanno subito richiesto l’aiuto militare europeo. E quando questo è avvenuto, non hanno atteso un minuto di più per esultare, né per appendere bandiere francesi e inglesi in giro per la città. Ora, come si può leggere una situazione in cui gli interessi degli insorti coincidano così evidentemente con quelli dei paesi NATO? Secondo noi, con una linea di diretta continuità fra interessi degli insorti e interessi occidentali. Sono gli stessi interessi della società civile presente sicuramente fra le schiere degli insorti cirenaici? Probabilmente no ma, non determinando nulla, questa società civile non può orientare il nostro giudizio su quello che sta avvenendo, che è invece, lo ribadiamo, una lotta fra gruppi di tribù speculari. Anche perché, se così non fosse, ci sarebbero rivolte anche a Tripoli o nella Tripolitania, e invece i ribelli stanno solo nella Cirenaica, marcando un’appartenenza territoriale che conferma un po’ di cose che stiamo dicendo.

Proposta

Dopo tutto quello fin qui detto, l’unica via d’uscita a questo mare di merda è quella, ancora valida, proposta dall’insieme di stati latinoamericani riuniti nell’ALBA e portata avanti con forza dal presidente venezuelano Chávez. Lo disse già ormai quasi tre settimane fa, ignorato dai soloni della sinistra speranzosi in una rapida fine di Gheddafi e di una affermazione dei cirenaici: oltre alla ovvia fine dei bombardamenti, l’istituzione di una conferenza internazionale senza i paesi NATO (se non come meri osservatori) che

1) Porti ad un tavolo internazionale le due parti in campo, consentendo così a tutti quanti di capire chi siano questi ribelli, che proposte abbiano, chi rappresentano, e via dicendo.

2) Stabilire le modalità d’uscita di scena di Gheddafi. Perché, se è evidente che non potrà più essere il presidente della Libia, a farlo uscire di scena non dovrà essere né una sua morte per mano di sconosciuti insorti, né un affidamento della sua persona al tribunale penale internazionale, obbrobrio giuridico imperialista creato ad arte per processare i dittatori invisi agli U.S.A., manovrato dagli stessi Stati Uniti tralaltro senza che questi ne facciano parte (dopo averlo istituito).

Quando, settimane fa, queste cose venivano dette nel giusto tempismo da Chávez nessuno ebbe la dignità di ascoltarlo. Nonostante l’evidente opportunismo di prenderlo per buono adesso da parte di chi non sa neanche bene chi sia, ci sembra ancora l’unica opzione valida e democratica presente in campo. Dovrebbe essere fatta subito nostra, e ci spenderemo con forza affinché vengano prese queste proposte come nostro obiettivo politico seguente la fine dei bombardamenti.