Unione Europea: rompere la gabbia… salariale!
Il cosiddetto “piano Polonia” proposto dalla Electrolux sembra aver riacceso un seppur minimo interesse sulla condizione salariale europea e, nello specifico, italiana. Il fatto, fanno sapere dai vertici della multinazionale svedese, è che la stessa lavatrice che oggi viene assemblata in uno stabilimento italiano se prodotta in un paese dell’est costerebbe all’azienda ben 30 euro in meno rispetto ai costi attuali. Per cui il messaggio è chiaro: o accettate i tagli salariali oppure “saremo costretti” a delocalizzare. E’ il mercato, bellezza! E i padroni sanno bene che al momento di scegliere tra la disoccupazione e un salario, per quanto più basso, la legge della sopravvivenza finirà per imporsi salvaguardando i loro lauti profitti. Anche perché i dati del “settore del bianco” diffusi in questi giorni rappresentano al riguardo un monito più che eloquente: la percentuale dei frigoriferi prodotti in Italia dal 2007 ad oggi è calata del 20%, quella delle lavatrici e delle lavastoviglie è scesa del 24%, con una perdita netta di oltre 14.000 posti di lavoro. Per evitare di prospettare lotte esclusivamente “difensive” o rassegnarsi ed accettare questa condizione come qualcosa di ineluttabile è necessario però comprendere come tutto questo non sia accaduto e non accada per caso. Non è stato certo il destino “cinico e baro” ad accanirsi sui proletari, quanto piuttosto il disegno cosciente delle classi dominanti, un progetto che almeno a queste latitudini ha preso la forma specifica dell’Unione Europea. Capiamoci bene, non stiamo qui sostenendo ipotesi isolazioniste, sovraniste o neonazionaliste. Lo spazio politico a cui guardare deve essere come minimo europeo e il respiro delle lotte, se vuole essere efficace, non può che essere internazionale. Del resto è questo il piano d’azione che il Capitale si è dato ed è su questo piano che dovremmo giocarci la partita, anche perché nel pieno della mondializzazione capitalistica la cartografia delle classi corrisponde sempre meno a quella politica. Ma proprio per questo motivo occorre aver chiaro che l’Europa è cosa ben diversa dall’Unione Europea, ovvero dalla costruzione di un polo imperialistico capace di garantire al capitale europeo la forza necessaria a reggere l’urto della competizione globale. Un progetto che fin dall’inizio nasce e si sviluppa in chiave antiproletaria e che non a caso individua proprio nelle gabbie salariali tra i diversi stati membri uno dei suoi architravi. Ragion per cui un operaio in Bulgaria è costretto oggi a lavorare per un salario minimo orario di appena 95 centesimi di euro mentre un lavoratore polacco deve accontentarsi di un salario minimo mensile di appena 369 euro, esercitando di fatto un freno ed una spinta al ribasso per ogni rivendicazione salariale. Crediamo che sia proprio contro questo architrave che sia giunto il tempo di ingaggiare una lotta che finalmente sia “in avanti”, una lotta capace di generalizzare e unire ciò che oggi è frammentato e diviso, una lotta per rivendicare un salario minimo europeo che sia almeno pari a quello più alto percepito oggi in Europa. Non sarà una lotta “esaustiva”, non sarà la sola possibile, ma è certamente un buon punto da cui provare a cominciare.