Una settimana dopo Rinaldini avrà ancora i lividi?!?
È passata più di una settimana da un evento sindacale che ha calamitato l’attenzione dei media, con pratiche di demonizzazione che conosciamo bene. Sabato 16 maggio la stampa borghese ha dato grande risalto al corteo operaio indetto a Torino dai sindacati confederali per ottenere rassicurazioni sul futuro degli stabilimenti Fiat. Il risalto mediatico, ovviamente, è dovuto all’aggressione perpetrata ai danni del segretario della Fiom Gianni Rinaldini.
A bocce ferme e mente lucida riprendiamo quanto accaduto, ostinati nell’intento di non dimenticare avvenimenti importanti il giorno dopo che sono accaduti. Soprattutto quando riguardano il lavoro di migliaia di persone e la disponibilità economica di migliaia di famiglie. Soprattutto quando riguardano l’ennesimo caso di mistificazione mediatica, nata – come sempre più spesso capita – a sinistra.
Innanzi tutto non c’è stata alcuna aggressione a Rinaldini: il segretario della Fiom è scivolato (anche piuttosto goffamente, sembrava una pera cotta) mentre un gruppo di operai dello Slai Cobas cercava di prendere il microfono sul palco, esercitando quel diritto di parola che la Fiom aveva loro negato. Tanto è vero che proprio i Cobas hanno “riacchiappato” al volo Rinaldini, prima che si sfracellasse per terra. Una prima domanda: ma il famoso servizio d’ordine della Fiom che fine aveva fatto? Evidentemente faceva comodo a molti sintetizzare il corteo del 16 maggio come la giornata dell’aggressione al segretario ecc…ecc… Il fatto stesso che la presunta aggressione sia uscita su pochissimi video (ma solo su moltissime fotografie ben poco chiare) suggerisce l’idea di una montatura costruita ad arte. Tra l’altro se il nostro Rinaldini avesse rispedito al mittente la solidarietà pelosa che i padroni si sono affrettati a mostrargli non avrebbe fatto male, anzi.
Ma veniamo all’analisi politica, ben più interessante della moviola su chi sgambetta chi.
È piuttosto evidente che le recenti manovre “internazionali” della Fiat siano funzionali a un ulteriore dimagrimento dell’azienda, chiudendo quegli stabilimenti che le logiche imperanti del capitalismo globale considera “rami secchi” (specificatamente quelli di Pomigliano e Termini Imerese). La stampa descrive Marchionne come una sorta di “guru”, un genio, quasi una figura mistica che sta riuscendo a restituire alla Fiat (e a tutta l’industria italiana) quell’immagine di efficienza e competitività che aveva perso tra almeno trenta anni. Dietro all’agiografia di Santo Marchionne c’è un manager che addolcisce la pillola dei licenziamenti e del drastico ridimensionamento produttivo con i lustrini degli accordi internazionali (oggi con gli Usa, domani forse con la Germania). Quando Marchionne risponde a chi lamenta il rischio di un prossimo licenziamento di 18mila lavoratori specificando (senza essere ironico) “saranno al massimo 10mila” scopre le sue carte. Ma non ci vuole un genio, né un fine analista a capirlo. Come anche una mente semplice dovrebbe aver imparato che le politiche della Fiat hanno da sempre rappresentato un modello da seguire per tutto il padronato italiano.
Di fronte a questo quadro mortificante cosa fanno i sindacati confederali? Sempre più in difficoltà dentro le fabbriche se la cavano con la solita manifestazione (quella del 16 maggio, appunto). Presi a spalare merda sullo Slai Cobas, i media si dimenticano di dire che il corteo si rivela un mezzo flop: ben lontani dai 15mila dichiarati dagli organizzatori (ma anche dai 10mila descritti dai più sinceri), i manifestanti davano l’impressione di portare nel corteo tutti i loro dubbi e perplessità. Come scrivono i compagni di Operai Contro, ben settecento manifestanti venivano da Pomigliano, mentre dalla torinese Mirafiori si erano presentati solo in 150. Rappresentanze appena simboliche da tante altre fabbriche dell’indotto. In fondo, perché partecipare a una manifestazione che ha una valenza solo simbolica, utile ai confederali per mettere la solita bandierina. Perché non dire che convocare una manifestazione operaia di sabato (quando la maggior parte delle fabbriche è chiusa) serve a recare il minor danno possibile all’azienda? Perché non ricordare come, nelle singole fabbriche, le medesime organizzazioni sindacali che hanno convocato la manifestazione assecondano la ricerca padronale degli incentivi di Stato mediante il raggiungimento dei picchi produttivi?
Passano gli anni, nelle fabbriche si continua a lavorare di merda, i salari italiani sono gli ultimi in Europa, mentre il numero di morti sul lavoro ci vede primeggiare, eppure i sindacati confederali, anziché prendere atto del proprio fallimento, cercano in tutti i modi di distogliere l’attenzione dai veri problemi, neanche fossero Berlusconi con l’affare delle veline. Così veniamo inondati di cazzate come gli operai che votano Lega (quasi a suggerire “ecco, la colpa è degli operai, che non sono più compagni come una volta”) oppure i sindacati di base che sono brutti e cattivi. I tre porcellini (Cgil, Cisl e Uil, a cui felicemente si accoda l’Ugl) sono ben contenti di legare il salario alla produttività, mentre l’ineffabile Ichino si affretta a presentare un disegno di legge che promuove la compartecipazione dei sindacati alla gestione delle imprese. Pensate che significherà restituire dignità ai consigli di fabbrica? Oppure sarà l’ennesima accelerazione di quella concertazione che già tanti danni ha fatto?
Infine un’ultima considerazione: mentre la stampa di destra descriveva i fatti di Torino con modalità ben immaginabili (“ribelli”, “terroristi”, “futuri brigatisti”), quella di sinistra confermava l’insulsaggine che la contraddistingue ultimamente. Anche sulla questione operaia il manifesto, ad esempio, confermava lo strabismo che mostra quando parla di movimenti. Dispiace che anche un giornalista esperto di cose della Fiat come Loris Campetti si adegui all’andazzo imperante: la sua tesi è che i contestatori di Torino – inseguendo solo un minimo di visibilità mediatica – “segnano la loro estraneità dalla sinistra, da quel poco di sinistra che resta”. Certo, se la sinistra è quella che invoca la coesione sociale come fosse la più infima cellula democristiana, allora ne siamo tutti fieramente estranei.
Fuori dalla burocrazia sindacale, il potere deve essere operaio!