Trova le differenze

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Il 17 febbraio 2008 il Kosovo, regione appartenente allo Stato serbo, dichiarava unilateralmente la propria indipendenza. Immediatamente 108 Stati, tra cui quasi tutti gli Stati dell’Unione Europea (con le importanti eccezioni di Spagna e Grecia per ragioni di politica interna), gli Stati Uniti e compagnia varia, riconoscevano la nuova sovranità statuale come espressione dell’autodeterminazione delle popolazioni residenti, avallandone il diritto a liberarsi dal giogo dello Stato serbo rendendosi indipendenti politicamente.

L’altro ieri, 11 marzo 2014, la Crimea, regione appartenente allo Stato ucraino, dichiarava unilateralmente la propria indipendenza. Immediatamente, questa veniva rifiutata da tutti i protagonisti delle relazioni internazionali – Stati sovrani e organi politici sovranazionali – tranne dalla Russia che riconosceva il diritto alle popolazioni russe della penisola ad autodeterminarsi liberandosi dal giogo dello Stato ucraino.

In tutte e due gli episodi risultano chiare due cose: prima di tutto, in nessuno dei due casi si può parlare di autodeterminazione popolare, quanto di un più o meno influente potere di indirizzo di grandi potenze che mirano a indebolire, o al contrario a rafforzare, l’entità statale di volta in volta problematica o, all’inverso, centrale per il proprio sviluppo economico. Ieri era necessario, per lo sviluppo economico dell’Unione Europea, smembrare lo Stato jugoslavo, che infatti pervenne alla propria divisione grazie al diretto intervento della Germania. Da quel giorno, al posto di una unica entità statale sovrana se ne crearono sette, molte delle quali prive di concreta sovranità, e che costituiscono ancora oggi il luogo di destinazione della dislocazione produttiva delle multinazionali europee in cerca di produzione a basso costo e a zero diritti sindacali. Oggi, al contrario, l’obiettivo è salvaguardare l’integrità territoriale – dunque la propria forza politica ed economica – dell’Ucraina in funzione anti-russa, visto il suo futuro tutto interno alle dinamiche della UE.

La seconda questione che sembra evidente è che se gli interessi portati avanti sono quelli occidentali, la comunità politica internazionale fa blocco attorno a questi, tanto politicamente quanto economicamente; se gli interessi sono quelli di altri Stati, come ad esempio la Russia, non esiste la stessa dialettica, ma la crociata “né di destra né di sinistra” contro il male assoluto, che porta tutti gli agenti politici, mediatici e culturali a fare blocco contro il nemico di turno. E’ questa dinamica che dovremmo rifiutare, ritrovando quell’autonomia culturale capace di farci analizzare le questioni internazionali senza la costante sensazione di andare a ricasco delle analisi proposte da altri, dove questi altri coincidono sempre con le letture mainstream proposte dai grandi organi d’informazione. Questo fatto riguarda in modo speciale la sinistra antagonista, proprio quella che dovrebbe rifiutare a prescindere le fonti mainstream. Se infatti l’apparato mediatico nel suo complesso, lo stesso apparato che opera costantemente per la criminalizzazione degli stessi movimenti di classe, tende politicamente a dare una lettura su determinate questioni internazionali, questa sarà dettata dagli stessi interessi e proposta attraverso gli stessi canoni con i quali legge le dinamiche interne che ci riguardano più direttamente. Non è dunque possibile avallare questa lettura su fatti di politica internazionale, solo perché magari ci capiamo poco e ce ne disinteressiamo, per poi attaccarla senza indugi sul piano interno. Ci vuole coerenza, e questa sta nel rifiutare in blocco le letture proposte dal mainstream, che ovviamente non è un contesto indipendente, ma risponde agli stessi referenti economici che noi, politicamente, combattiamo quotidianamente. Se il Corriere o Repubblica, Rai 1 o Mediaset, Mondadori o Feltrinelli, tendono ad identificare oggi il nemico degli interessi occidentali in Putin, qualche domanda dovremmo pur porcela. Perché le volte precedenti: in Libia, in Siria, in Iraq, in Jugoslavia, in Afghanistan, in Venezuela, in Vietnam, a Cuba, in Iran, ecc, quasi sempre sono coincise con una guerra “umanitaria” al dittatore di turno. Evitiamo di essere anche noi portatori d’acqua di un discorso imperialista che mira a produrre guerre per bonificare territori ancora non sottomessi all’egemonia imperialista. Almeno, proviamo a non esserne complici.