“Storia di una foto”

“Storia di una foto”

Si tratta di un album fotografico? Di più. Un saggio politico? In un certo senso. Una raccolta di testimonianze? Non solo. Un racconto? Anche. Allora che cos’è? E’ la storia di una foto. Una foto scattata a Milano, in via De Amicis, il 14 Maggio del 1977.

Si manifesta contro la repressione. Si manifesta perché due giorni prima a Roma era stata assassinata dalla polizia Giorgiana Masi. Si manifesta perché a Milano, lo stesso giorno, vengono arrestati due avvocati di Soccorso Rosso con l’imputazione di “promozione di associazione sovversiva”. Non c’è storia. Bisogna dare una risposta. Fare qualcosa. Un corteo. Quando lo spezzone dell’Autonomia Operaia si stacca dal percorso ufficiale, direzione carcere di San Vittore, un gruppo di fuoco di un collettivo di quartiere avanza rapidamente e spara sulla polizia schierata a qualche decina di metri. Dall’androne di un palazzo che dà sulla strada si sente un clic. E’ la macchina fotografica che frizza per sempre in un istante quella che dal giorno dopo diventerà la foto simbolo del 1977. Uguale identica a quella che vediamo ancora oggi. Forse un po’ ingiallita. Quello che, giorno dopo giorno,è sbiadito fino a diventare pressoché invisibile agli occhi è il suo contesto. Tutto il problema dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.

Ecco da dove parte questo libro. Ed ecco il perché di questo approccio multidisciplinare, ibrido, che mira a restituire almeno parte dello sfondo di questa foto. La complessità di quei giorni, di quegli anni e di quegli avvenimenti agguantandoli da diversi punti di vista. E se per tutti questi anni ti hanno nascosto gli occhiali mettere a fuoco lo sfondo per un occhio miope è un lavoro davvero difficile, praticamente impossibile. Ecco allora che con pazienza e fatica artigiana sono lenti che vanno molate quasi da zero. Ed è necessario farlo. Per chi c’era e anche per chi è venuto dopo.  Per capire. Per imparare. Per andare avanti.

L’idea di partire da una foto per spiegare il 1977 può sembrare semplice. Ma lo è solo in apparenza. Perché fotografare è creare discontinuità. E una foto può essere puntuale o imprevedibile. In una foto si conservano tutte le apparenze, ma rapidamente, è già divenuta una semplice intuizione fenomenica. Di fronte allo scatto in questione viene semplice parlare della sua violenza. Ma non basta, bisogna andare oltre. Parlare anche dell’altra faccia della medaglia. Della violenza che è stata fatta all’immagine. Lo sfruttamento della sua potenza evocativa a scopo a volte politico, altre volte morale, altre volte ancora pedagogico. Ma come hanno fatto?

Bisognerebbe cominciare col dire che una fotografia, per forte che sia la violenza che la pervade, restituisce il soggetto ad una sempiterna immobilità silenziosa. E’ quindi incapace di spiegarsi, ancora meno di difendersi. Lo scatto isola un fenomeno e lo pone in un rapporto diretto ma controverso con il reale. Come il reale scompare sotto la riproposizione compulsiva delle immagini così anche l’immagine scompare sotto i colpi della realtà.

Poi bisognerebbe dire che la pretesa di realismo di una foto viene minata da un doppio processo. Il primo consiste nella soggettività e parzialità del fotografo che sceglie il soggetto della foto, il suo isolamento, il momento dello scatto, l’inquadratura. Il secondo stadio è quello della sua pubblicazione. Estraendo il soggetto dello scatto dal suo contesto già se ne modifica il senso. Se poi nel momento della pubblicazione lo ricollochiamo in un altro contesto il senso muta una seconda volta. Questo vale per qualsiasi cosa, dalle foto, ai campionamenti musicali, alle parole. E’ piuttosto semplice estrapolare una frase, abbinarla a un’altra frase presa da un’altra parte e cambiarne il significato. E i giornalisti sono sempre maestri in questo. E’ esattamente il caso di questa foto ma non solo. E se vogliamo citare dei casi più vicini in ordine di tempo lo abbiamo visto ne “l’uomo con la pala” del 14 Dicembre scorso o “Er pelliccia con l’estintore” del 15 Ottobre. Per fortuna o purtroppo nell’epoca della fotografia digitale e diffusa le masse di persone che stavano dietro di loro sono state immortalate da decine di persone e  hanno contribuito a ristabilire un minimo di contestualizzazione. Così l’Umberto Eco di turno ha potuto parlare di “eroi solitari” solo per qualche ora.

L’illusione della presunta oggettività di queste foto è però facile da smontare: basta vedere come la stessa foto pubblicata in giornali differenti, cambia significato attraverso la sua diversa collocazione, il trattamento e la contestualizzazione testuale e grafica.

Una fotografia contiene un’impronta del reale, ma ciò non significa che coincida con la realtà. La vita non è fatta di particolari significanti, non è illuminata da un flash e non è fissata per sempre. La fotografia sì.

Di conseguenza anche la fotografia è una tecnica capace di creare un nuovo senso. Un mezzo capace di scrivere immaginario con elementi presi in prestito dalla realtà. La fotografia indica l’oggetto, punta il dito ed esclama: guarda quello, è proprio questo, è stato esattamente così. Ma si tratta di un immagine ferma, frizzata, in attesa di essere specificata nel tempo e nello spazio. La debolezza profonda delle fotografie è che non possiedono un significato in sé, ma devono essere rivolte a qualcosa per significare. E quel qualcosa siamo noi e loro, la lotta di classe passa anche di qui. Nella nostra capacità di raccontarci e costruire immaginario collettivo.

Stupisce che a distanza di così tanti anni questa fotografia sia ancora capace di evocare il mistero di una presenza incombente attraverso un’assenza ingiustificata: gli anni Settanta. Diamoci da fare per liberarli. Il prima possibile.

Libro consigliatissimo: Storia di una foto a cura di Sergio Bianchi, 20 euro, DeriveApprodi