Spending review o nuova finanziaria?

Spending review o nuova finanziaria?

 

Stiamo assistendo al varo di una nuova manovra finanziaria, l’ennesima, dopo le quattro manovre di Luglio-Agosto 2011 e la manovra monstre di novembre. Nel giro di un anno sono stati prelevati, dal carico fiscale pagato dai lavoratori dipendenti, circa 100 miliardi di euro. Euro che sono transitati dai lavoratori dipendenti alle imprese private, e in particolare alle banche. Il più grosso spostamento di ricchezza avvenuto nel nostro paese, il più grande e inaudito attacco economico alle classi lavoratrici. Con tanti saluti alla redistribuzione del reddito: è avvenuta, ma nel verso sbagliato, alla faccia di chi ancora parla di fine della lotta di classe.

Questi cento miliardi hanno fatto si che, nel giro di 12 mesi, il 6% del Prodotto Interno Lordo italiano sia stato forzatamente spostato dai redditi da lavoro ai redditi da impresa. Tutto è avvenuto senza che alcuna opposizione sociale o politica battesse ciglio. Certo, c’è stata qualche manifestazione di rito di fronte ai palazzi del potere; qualcuno si è indignato, qualcun altro si è più prosaicamente incazzato. Ma, al di fuori del rituale, questo spostamento di ricchezza è avvenuto in sordina.

In questi giorni si sta approvando un’altra, ennesima e traumatica, manovra finanziaria. Solo che stavolta la chiameranno revisione della spesa o, secondo la neolingua del capitale finanziario, spending review. Si tratta della stessa cosa. E infatti, lungi dall’indagare quali siano questi fantomatici sprechi nell’amministrazione pubblica, questa revisione della spesa si tradurrà nel solito elenco di licenziamenti. Già sono circolate le prime cifre: il 20% dei dirigenti e il 10% del personale amministrativo pubblico sarà tagliato. Non è uno scherzo né una provocazione retorica: di fronte alla peggiore crisi strutturale del dopoguerra, crisi derivante da una sovrapproduzione che non trova alcun mercato di sbocco per la quantità industriale di merci prodotte, la soluzione che il capitale continua a mettere in campo è quella dei licenziamenti e della compressione dei salari, andando così ad aumentare la gravità della crisi stessa. Se infatti il sistema economico continua a comprimere i salari (ad esempio, licenziando), non si capisce quando e dove ripartiranno i consumi, cartina tornasole dello stato dell’arte in un economia di tipo capitalistico-consumista. Oltretutto, giova ricordare che sono più di venti anni che nella pubblica amministrazione si licenzia e basta, dato che col blocco del turn-over ad ogni pensionato non corrisponde un nuovo entrato. Per cui, sono venti anni che nella PA il personale diminuisce. Questa diminuzione però non ha portato né ad un miglioramento delle finanze pubbliche, né ad un’efficienza maggiore della produttività pubblica, né tantomeno ad un aumento dei consumi. Provando, senza possibilità di smentita, che i licenziamenti o le compressioni dei salari (diretti, indiretti o differiti) non portano ad un aumento della produttività o della competitività di un economia, ma solo alla sua depressione. Non liberano alcun istinto animale del mercato e della concorrenza “frenato” dall’invadenza statale.

Di fronte all’ennesimo cataclisma in arrivo, i sindacati si sono preoccupati che nessuno tocchi la loro riserva indiana dei lavoratori pubblici sindacalizzati, trasformando anche quel simpatico coglione di Bonanni in un potenziale sovversivo. Di questo passo, anche Montezemolo e Vendola sembreranno di sinistra, e non mancherà di certo chi ci inviterà a votarli perché rappresentano il meno peggio, e poi che vogliamo mica il ritorno di Berlusconi?