sfruttati di tutto il mondo: uniamoci!

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Due giorni fa, commentando gli effetti della crisi sul nostro paese, il presidente del consiglio ha esortato gli italiani a rimboccarsi le maniche e a lavorare di più. Ad essere onesti questa idea di una possibile fuoriuscita dalla crisi attraverso il sacrificio collettivo non appartiene esclusivamente alla destra o al padronato, ma permea trasversalmente tutto il campo politico e sindacale fino ad arrivare ad ambienti molto prossimi al nostro. Eppure è totalmente sbagliata e proveremo a spiegare sinteticamente il perché. L’idea stessa delle “maniche rimboccate” allude ad una crisi da penuria, da scarsità di beni e risorse che è del tutto fuorviante. Quello che accade oggi è invece che ci sono troppe merci e troppi pochi consumatori in grado di acquistarle e questo pregiudica la profittevolezza degli investimenti. Semplificando: io investo X denaro per produrre delle merci che una volta vendute sul mercato mi renderanno X+Y denaro. Y rappresenta il profitto ed il rapporto tra X ed Y rappresenta il saggio di profitto espresso in forma di percentuale. Ma se il mercato è saturo e nessuno compra le merci che io produco, non solo non avrò nessun profitto ma rischio di perdere anche il denaro investito. Di qui la progressiva rinuncia agli investimenti produttivi da parte dei capitalisti e il tentativo di battere altre strade, come le speculazioni finanziarie, per veder garantiti comunque i propri profitti. Dopo la crisi del 1929 la risposta fornita dagli Stati fu quella del sostegno alla domanda attraverso il massiccio intervento pubblico e il conseguente aumento di lavoratori pubblici. Si trattava di lavoratori che se da un lato non producevano merci direttamente vendibili sul mercato, e quindi non aumentavano l’offerta di merci ma al più soddisfacevano bisogni collettivi (sanità, istruzione, difesa, ecc), dall’altro lato percepivano salari e stipendi che permettevano loro di consumare le merci prodotte nel settore privato. Oltre a questo vi fu, ovviamente, la carneficina della seconda guerra mondiale che attraverso la distruzione sistematica di cose e persone resettò l’economia mondiale e, ridefinendo gli equilibri geopolitici, diede nuovo impulso all’economia capitalista. Oggi questa situazione di sovrapproduzione si ripropone anche alla luce degli effetti connessi alla cosiddetta globalizzazione. La dismissione del settore pubblico, la delocalizzazione di interi settori produttivi alla ricerca di bassi salari con cui contenere i costi di produzione e la precarizzazione del lavoro in occidente non hanno fatto altro che far contrarre salari e stipendi minando il potere d’acquisto di milioni di lavoratori che si ritrovano così schiacciati da questo circolo vizioso. Qual’è la via d’uscita? Ovviamente provare a realizzare un sistema economico più razionale ed equo, ma nel frattempo richiedere con forza alcune misure che più che rivoluzionarie sono oggi di semplice buon senso:

– riduzione dell’orario di lavoro ed aumento dei salari

– diminuzione dell’età pensionabile

– indicizzazione delle retribuzioni all’inflazione reale

– stabilizzazione dei contratti “atipici”

– istituzione di un salario minimo intercategoriale di 1500 euro

– piano di intevento pubblico volto alla soddisfazione dei nuovi bisogni extramercantili

Nelle prossime settimane proveremo a descrivere più diffusamente ognuna di queste proposte.