Se il buongiorno si vede dal mattino, sarà dura ma non impossibile
Se in politica contassero i numeri, dopo l’assemblea cittadina di ieri saremmo già un bel passo avanti nella costruzione del percorso che arrivi a bloccare effettivamente la manifestazione fascio-leghista del 28 febbraio a Piazza del Popolo. Purtroppo – o per fortuna – la politica è poker e non tresette, è saper piegare la realtà alle proprie ragioni, non andando alla conta ma facendosi percepire determinanti a prescindere della propria forza oggettiva. Ieri questa forza si è però manifestata come non accadeva da anni, e questo fatto va tenuto in doverosa considerazione. Il percorso unitario, portato avanti con non poche difficoltà e stress, si è dimostrato ieri moltiplicatore delle nostre ragioni e non freno ad un’iniziativa più radicale. Per quanto ci riguarda, l’onere – e l’onore – di aprire quell’assemblea a nome del percorso che ha costruito quel momento pubblico dimostra il nostro impegno e la fatica di perseguire un percorso unitario ma allo stesso tempo conflittuale.
Ieri la forza reale di un movimento e di una volontà politica si è prima presa un’aula dentro l’università, un’aula non autorizzata ma che è stata alla fine concessa di fronte alla marea umana che ne rivendicava il diritto di poterne usufruire. Un evento forse ovvio fino a qualche anno fa, ma che nella ritirata politica anche – soprattutto – dentro l’università e fra gli studenti, assume oggi tutt’altro rilievo. Oggi prendersi un’aula è già una conquista, per dire, e averlo fatto ieri è il segnale di un processo che è stato avviato e che per la prima volta può essere potenzialmente virtuoso e inclusivo.
In secondo luogo, la massa presente ieri non si è accontentata di riprodurre un rito, già di per sé di questi tempi non scontato. Non ci si è compiaciuti di essere tanti, si è voluto anche essere determinati, puntare ad un obiettivo forse non alla nostra attuale portata, ma potenzialmente raggiungibile: quello di portare avanti un percorso largo e inclusivo, ma che non soffochi alle ragioni della quantità quelle della determinazione, della conflittualità, dell’obbligo di dare una risposta non solo numerica ma politica, simbolica, all’invasione reazionaria, ad un progetto politico che, come abbiamo spesso detto, sarebbe potenzialmente mortale per la nostra agibilità politica, per la nostra credibilità politica.
Vivessimo in tempi ordinari, l’opposizione alla manifestazione leghista rientrerebbe, appunto, nell’ordinario. Si andrebbe alla conta dei numeri, si sommergerebbe il tentativo reazionario con la forza di massa di un campo, quello largo della sinistra, in teoria più forte e strutturato. Non viviamo però in tempi di ordinaria amministrazione. Viviamo tempi straordinari, inseriti in una crisi straordinaria, e il progetto politico di Salvini ne rappresenta uno dei frutti politici. Il tentativo, cioè, di organizzare le masse subalterne attorno ad una retorica neo-nazionalista, autarchica, xenofoba, ma anche con forti venature sociali, capace di rappresentarsi come opposizione alle politiche economiche dei governi imposti da Bruxelles. Che questo fatto non sia vero, che costituisca una colossale fandonia, non è il dato rilevante. L’importante, il fattore decisivo, è la percezione che tra gli strati popolari acquista l’opzione leghista, quella di una forza che con più coerenza e combattività parla alla pancia del paese toccando i temi centrali del malessere sociale: l’euro e l’Unione Europea, le banche e le controriforme sociali, Renzi e il liberismo.
A questo tentativo allora non possiamo rispondere relegando la questione a mera contrapposizione “antifascista”: Salvini e la Lega non sono forze “fasciste”, anche se, attraverso tale operazione, vengono immessi nella normale dialettica temi e soluzioni che fanno riferimento all’area dell’estrema destra, sdoganando un’area e una proposta politica da sempre marginale. Non possiamo reiterare il confronto tra cittadinanza democratica e pericolo reazionario, come se quella cittadinanza democratica non sia anche la stessa che ha votato Renzi e i governi PD, veri e propri artefici della fortuna politico-mediatica di Salvini. Non è una questione di democrazia l’opposizione a Salvini, ma di lotta di classe, e prima lo capiamo e meglio sarà per tutti. Usciamo da paradigmi incrostati da decenni. La conta democratica vale quando c’è un campo democratico, non quando questo non esiste più se non come campo della “nemicità”, soggetto politico e sociale avverso alle ragioni dei movimenti di classe e del mondo del lavoro.
Il tentativo renziano di elevare Salvini ad unico oppositore del governo PD, poi, rappresenta un pericolo fatale per l’alternativa politica di questo paese. In uno scontro politico ed elettorale tra Renzi e Salvini non pochi saranno quelli che inviteranno a votare il “meno peggio”, non pochi saranno quelli che inviteranno a impresentabili “fronti comuni” contro il pericolo fascio-leghista. Bisogna dire da subito in maniera netta, allora, che noi non possiamo cascare in questo gioco mortale, che va scardinata questa retorica, e per farlo va abbandonato il feticcio del “democraticismo”, della “società civile”, delle maglie larghe di un campo democratico che, lo ripetiamo, non esiste più se non come campo avverso alle ragioni del lavoro.
E’ per questo che il 28 va dato un segnale. I nostri problemi non nascono con Salvini e non finiranno il 28 ma, allo stesso tempo, non possiamo ignorare la portata simbolica di quella giornata. Un simbolismo che non riguarda noi ma le fasce popolari del paese: se il progetto leghista si accrediterà al centro-sud anche grazie ad una riuscita manifestazione romana poi ripartire, per noi, sarebbe molto più difficile di quanto già non sia oggi. Per tali ragioni, una volta di più, Salvini non va fatto passare.