Salario o reddito/2

Salario o reddito/2

In pochi mesi, quella che è stata la rivendicazione egemone e complessiva, la proposta principale dei movimenti italiani di questo ventennio, sta rapidamente perdendo terreno con una velocità paradossale. Ci saremmo aspettati molte più polemiche rispetto a una nostra presa di posizione che fino a poco tempo fa sarebbe caduta nel vuoto di un movimento completamente alieno alle dinamiche lavorative, delegate a un sindacalismo che in questi anni ha cercato di riempire il vuoto politico del discorso lavorativo attraverso improbabili (quando non dannosi) tentativi di soggettivizzazione politico-sindacale. E invece, la sostanziale condivisione che ha avuto il nostro ragionamento, espressione peraltro di un cambiamento di paradigma che si tocca con mano nelle varie assemblee e riunioni di movimento, ci induce a riflettere ancora sulla proposta del reddito di cittadinanza, sugli slittamenti semantici che questo ha prodotto, e su questo più o meno evidente cambio di linea politica.

L’Europa dei redditi garantiti e la fine dello stato sociale

La contraddizione che notiamo più vistosa in chi propone reddito universale, è l’estremo eurocentrismo della proposta, su cui torneremo. Il reddito minimo garantito è presente in quasi tutti gli altri paesi europei. Ovviamente, la realizzazione pratica di questa forma di welfare quasi mai coincide con le proposte teoriche dei redditisti, ma allo stesso tempo questa situazione dovrebbe risultare comunque un passo in avanti nella lotta di classe rispetto ai paesi senza reddito garantito. In sostanza, un paese in cui viene elargito tale reddito, anche in forma spuria rispetto alla teoria, dovrebbe costituire un luogo in cui il conflitto e il rapporto di forza della classe si situa a un gradino più elevato rispetto al nostro. Infatti, una delle motivazioni principali che portano avanti i redditisti, è quella per cui un’elargizione incondizionata di denaro negherebbe uno degli strumenti di sfruttamento, quello cioè del ricatto fra guadagnare poco o morire di fame, impedendo una spirale in discesa dei salari e aumentando il potere contrattuale dei lavoratori. Eppure tutti i paesi, nessuno escluso, nei quali viene praticata questa forma di welfare, sono tutti paesi ultracapitalisti, pacificati e in cui il conflitto di classe si situa vari gradini sotto a quello presente, ad esempio, in Italia. La realizzazione pratica della proposta redditista, dunque, dovrebbe farci stare perlomeno cauti rispetto a immaginarie ipotesi palingenetiche di tale riforma dello stato sociale. Anche perché, e forse soprattutto, laddove questo strumento è stato introdotto, questo è avvenuto non attraverso la sua conquista da parte di lotte sociali e politiche, che hanno costretto il capitale a tale forma di mediazione, ma per concessione stessa del capitale, che ha deciso autonomamente di dotarsi di questo strumento per sostenere il consumo interno. E non è un caso che in Italia gli unici a esprimersi in suo favore sono, da un lato, il Movimento 5 Stelle, e dall’altro l’ex ministro liberista Fornero e il presidente di Confindustria Squinzi, interessati a stimolare la domanda interna più che fornire degli strumenti di classe ai lavoratori.

Analizzando peraltro la situazione economica europea, come già detto molte volte in passato, stiamo andando verso la fine dello Stato quale attore economico principale, e di conseguenza verso la scomparsa di ogni ipotesi (neo)keynesiana. Lo Stato non ha più alcun interesse a integrare quote maggioritarie di popolazione nella società del benessere. Le forme di stato sociale sviluppate nel corso di un trentennio (1945-1975), volte a legare alle istituzioni e ai valori della democrazia partecipata masse popolari con lo strumento della redistribuzione dei redditi sotto varie forme, incontrano oggi un ostacolo politico. Non esistendo più alternativa concreta ad esso, il capitale non ha più necessità di convincere le popolazioni della giustezza delle sue politiche economiche, creare consenso, produrre piccole o grandi oasi di benessere sociale. In questa fase pensare ad un miglioramento dello stato sociale, a una spesa pubblica in aumento, all’irrobustimento del ruolo dello Stato nell’economia, equivale ad affermare un’astrattezza ideologica, meno realizzabile di un ipotetico sbocco rivoluzionario della situazione.

Sistema globale ed eurocentrismo

Altro punto controverso del progetto redditista, legato anch’esso all’eurocentrismo, è che questa proposta è valida unicamente in contesti di capitalismo ricco, che può permettersi una redistribuzione di risorse tale da consentire un consumo interno basato anche su un reddito slegato dalla prestazione lavorativa. Ma da dove vengono queste risorse che il centro del sistema può permettersi di redistribuire?  I redditisti (in realtà qui dovremmo dire post-operaisti, sebbene assai spesso le due condizioni si confondono) affermano che questo enorme surplus di profitti derivi dalla messa a valorizzazione di una serie di comportamenti umani ormai integrati nel processo economico. Il loro costante esempio è quello di facebook: anche da una persona comodamente seduta in poltrona a casa e navigando su qualche social network, il capitale riesce ad estrarre profitto da questo comportamento, e dunque questo profitto dovrebbe tornare indietro alla popolazione sotto forma di reddito. Tale lettura, oltre che essere a-scientifica, si poggia su un presupposto estremamente eurocentrico. L’enorme massa di profitti a disposizione degli Stati del centro capitalista deriva dalla dislocazione internazionale del lavoro, che prevede una immensa periferia industriale in cui gli Stati capitalisti hanno dislocato la propria produzione, abbattendo i costi e generando quel meccanismo di accumulazione che poi vorrebbe essere redistribuito. Insomma, senza fare alcun ragionamento teorico sull’enorme espansione globale del lavoro dipendente salariato (che è in costante aumento e in costante depauperamento, smentendo qualsiasi teoria sulla fine del lavoro, altra idiozia eurocentrica), la proposta redditista si limiterebbe a ragionare sulla fine di questo percorso, e cioè come disporre di questa massa di profitti che giunge nel centro ricco. In soldoni, il Belgio o la Germania possono permettersi importanti strumenti di sostegno al reddito proprio perché la loro produzione avviene altrove, nella periferia povera, dove le conquiste salariali sono molto di là da venire, e dove si produce per l’espansione economica dei paesi ricchi.

Insomma, ragionare in termini nazionali o regionali in un sistema economico globale e immediatamente internazionale in ogni sua fase, ci sembra non solo essere un errore strategico, ma addirittura rischierebbe di riprodurre un atteggiamento neocoloniale. Che i ricchi distribuiscano nel migliore dei modi quel profitto generato dall’immensa periferia del capitale genererebbe solo la reiterazione di questo sistema, rischiando persino di avallarlo.

Le conseguenze pratiche del Reddito Universale

La realizzazione pratica del reddito di cittadinanza sconta poi diversi problemi teorici evidentemente insormontabili. La produzione di moneta infatti è legata alla produzione di merce, che a sua volta è legata alla prestazione lavorativa. Senza tenere a mente questo processo, non si spiega la natura sostanziale del denaro, che è il corrispettivo astratto della prestazione lavorativa (che è infatti una evoluzione del corrispettivo concreto praticato nelle economie fondate sul baratto). Anche qui, torniamo all’eurocentrismo: la redistribuzione di denaro può avvenire solo se a monte c’è una prestazione lavorativa, e questa prestazione avviene concretamente nelle suddette aree del mondo dove lo sfruttamento capitalista può generarsi senza gli intoppi della lotta di classe. Nella sua forma astratta e teorica quindi questa soluzione sarebbe impraticabile. Supponendo cioè un reddito di cittadinanza universale e applicato in ogni luogo del mondo, il denaro smetterebbe semplicemente di avere un senso, e dunque il sistema troverebbe un altro strumento per remunerare la prestazione lavorativa. Se infatti tutti i cittadini avessero a disposizione del denaro senza corrispondere nulla, questo si trasformerebbe in carta priva di valore, perché non corrispondente a un qualcosa di concreto (la prestazione lavorativa), che ne sostanzia il valore. Qual è infatti la differenza tra il denaro legale e quello del monopoli? Quello del monopoli è denaro privo di valore, ma non perché illegale, ma perché non agganciato a una prestazione lavorativa (che poi è la medesima ragione per cui ogni Stato persegue i falsari: se il denaro non fosse legato ad una prestazione lavorativa, anche i soldi falsi avrebbero legittimità di circolazione, visto che sia questi che quelli della Zecca si baserebbero esclusivamente su un valore virtuale).

Contraddizioni della parola reddito

Ci sono poi una serie di rivendicazioni necessarie del movimento di classe che in questi anni hanno subìto una slittamento semantico derivato dall’egemonia della parola reddito rispetto a una terminologia più precisa ma forse giudicata più polverosa. Anzitutto, in questi anni si è andata producendo un’analisi e una pratica sulle riappropriazioni, cioè sul recupero di forme di salario indiretto a fronte della continua perdita economica dei salari reali. Ma appunto di salario indiretto si tratta, e non di reddito, e questo perché tali forme di riappropriazione non sono slegate dalle dinamiche lavorative, ma sostanziano esattamente il discorso centrale della lotta di classe, cioè quello di avvicinare il più possibile il salario dei lavoratori alla quantità effettivamente prodotta dal lavoro dipendente, riducendo al massimo i margini di profitto del capitale. Se il comunismo è la forma di vita in cui tutta la ricchezza prodotta dal lavoro ritorna al lavoratore, il livello di lotta di classe dipende da quale margine di profitto privatizzato esiste in una determinata situazione, o meglio dalla quantità di lavoro espropriata dal capitale. Più è alta, meno favorevole è il rapporto di forza dei lavoratori in una società. E’ dunque nel recupero di quel margine, che si traduce nella lotta per la compressione dei profitti, che si situa il discorso delle riappropriazioni.

Tutta una serie di servizi pagati all’origine dal salario, corrisposti sotto forma di salario indiretto, in questi anni hanno subito una supervalutazione tale da impedire a quote sempre più importanti della popolazione di accedervi. Si tratta di tutti servizi essenziali, dai trasporti alla sanità, dalla scuola alla casa, che in realtà sono garantiti dalla fiscalità, e cioè dal prelievo all’origine dei salari dei dipendenti. Lottare per il recupero di questi beni e servizi non solo è sacrosanto, ma va proprio nella direzione di aumentare il rapporto di forza dei lavoratori contro il capitale.

Conclusione

Ogni discorso riguardante il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori non può che partire dalla produzione. Il problema è infatti osservabile solo a monte, guardando come il capitale produce e riproduce se stesso, e non a valle, e cioè su come redistribuire quei margini di profitto che il capitale genera altrove, in un altrove fatto di condizioni di lavoro pre-moderne, supersfruttate e aliene a ogni dinamica sindacale, costantemente in aumento e in via di generalizzazione anche nel centro capitalista, cioè in quelle metropoli occidentali che contengono sempre più in un medesimo territorio condizioni di vita da primo e da terzo mondo. Osservare il modello produttivo porta a pensare globalmente ai problemi del sistema economico, e dunque considerare strumenti generali per contrastarlo (validi cioè in ogni contesto), mentre focalizzarsi sull’aspetto redistributivo non può che restringere l’ottica nei luoghi dove avviene questa redistribuzione, perdendo di vista il contesto generale per rinchiudersi nella propria condizione immediata, teorizzandola e dandogli un valore non provato dall’esperienza e dalle cronache quotidiane.