Quaranta miliardi tra Di Pietro e i referendum

Quaranta miliardi tra Di Pietro e i referendum

A qualche settimana dai referendum possiamo dire con certezza che si sta avverando ciò che era fin troppo facile pronosticare. Portata a casa la vittoria, i vari sciacalli politici hanno incamerato il sostegno per le loro manovre partitiche, senza che il significato del referendum fosse anche solo in minima parte recepito. Di Pietro, forte del suo impegno elettorale, ha trasformato quei voti (non suoi) in arma di ricatto per tutta l’opposizione parlamentare, tentando di riposizionarsi come alternativa “moderata” alla sinistra di Vendola. Intesa l’aria che tirava, e cioè che il vero leader della sinistra del PD sarebbe in ogni caso Vendola, sta attivando una serie di manovre per cercare di ostacolare la naturale leadership vendoliana, tenendosi aperta anche la strada centrista. Niente di nuovo, lo squallore del personaggio è pari solamente alla sua ignoranza. E neanche ci dispiace per tutti coloro che nel corso di questi anni vedevano nell’ex magistrato il campesino rivoluzionario della nuova sinistra. Di campesino gli rimarrà solo il linguaggio. Quello, purtroppo per lui, nessuna manovra elettorale potrà migliorarlo.

Tra Ferrero, Vendola e Di Pietro, la corsa a chi raggiunge prima l’accordo col PD è iniziata da un pezzo e non se ne vede l’uscita. Anche qui, sperare che l’impulso di partecipazione politica prodotto dai referendum sia servito a qualcosa significherebbe solo alimentare un inganno che va avanti da decenni. Nessuno vuole interagire con quel segmento di società che si è attivato politicamente per una battaglia antiliberista. L’unica protesta accettata è quella contro il governo Berlusconi. Ogni tipo di spinta sociale che travalichi l’obiettivo elettorale viene depotenziata o annacquata. A Milano la spinta popolare per un cambio alla guida della giunta – che significasse anche un cambiamento di indirizzo politico – ha portato Tabacci ad amministrare le finanze della città (per non dire della qualità degli altri assessori), e sono già partiti i pianti e le grida di disperazione per i buchi di bilancio, cui fare fronte con inevitabili tagli ai servizi pubblici cittadini. Un film già visto, insomma, e che dimostra palesemente come sia stata completamente ignorata la volontà di una piazza che chiedeva cambiamento e si ritrova la DC a guidare le casse comunali. Per non parlare di Napoli.

Insomma, il dato che emerge è piuttosto omogeneo: la piazza, aizzata e fomentata fino al giorno prima delle elezioni e dei risultati elettorali, è passata nel giro di qualche ora ad inutile orpello, buona semmai a rincarare la dose delle proteste contro il governo ma non per decidere le politiche cittadine e i programmi  dell’”opposizione”.

Questo perché nessuno si è sforzato di capire il significato delle vittorie elettorali di queste settimane, tutti però impegnati ad accaparrarsi una parte di quella vittoria. E il significato, come abbiamo già detto in altri post, è proprio quello di un pezzo di società che si è stancata del neoliberismo dominante. Non esprime ancora un’unica visione politica omogenea o un’idea coerente di sviluppo, e dentro quei risultati sono rappresentate più o meno tutte le aree politiche e tutti i partiti. Ma esprime una coscienza e una volontà di cambiamento che ha reso quei risultati difficilmente spiegabili tramite i canoni politici tradizionali. Insomma, non è stata una vittoria di sinistra nel senso politico, ma in quello sociale. Dentro c’è il leghista che odia gli extracomunitari e il democratico che vota Bersani; c’è il salumiere che vota PDL come il vendoliano o il grillino che vuole meno corruzione nella politica. Impossibile ridurre partiticamente le soggettività  che hanno contribuito alle vittorie elettorali, ma è possibilissimo sintetizzare le loro proposte politicamente come un netto rifiuto di una parte di società a tutto ciò che ci ha governato in questi trent’anni. Governato in senso lato intendiamo, tutto ciò che ha portato a questo modello di sviluppo che continua a produrre povertà, peggiori condizioni di vita, smantellamento dello stato sociale, e così via. Tutte cose che già sappiamo, ma che per la prima volta sono state espresse anche a livello elettorale. Non sono state vittorie contro Berlusconi ma contro questo modello di sviluppo, altrimenti non sarebbero state vincenti e soprattutto non avrebbero portato alla mobilitazione di tutta quella gente.

Data l’assoluta dis-organizzazione di queste soggettività, esse sono facilmente controllabili e sintetizzabili dai partiti. Buoni a raccogliere firme per i referendum, chi si è attivato in questi mesi non ha però la struttura necessaria per continuare delle battaglie politiche coerenti ed efficace. E’ possibile raggiungere qualcosa su degli obiettivi specifici, ma nella normalità queste soggettività vengono controllate abbastanza agevolmente dalla struttura partitiche esistenti, che infatti hanno subito dato una lettura dei dati referendari che è palesemente falsa ma difficilmente contrastabile se non si possiede un grado adeguato di organizzazione e di coscienza politica che vada al di là dell’obiettivo. Insomma, mancando la visione di fondo questa viene data dai partiti, e l’unica visione di fondo di questi anni è stata quella di cacciare Berlusconi. Ogni spinta sociale viene ridotta all’antiberlusconismo, impedendo la nascita di una vera alternativa sociale alla politica contemporanea. Dobbiamo dimenticarci di Berlusconi e del berlusconismo, il vero nemico sul quale organizzarci è il liberismo, si può fare, è stato fatto e continuiamo a fare finta di niente.

Detto questo, fra qualche giorno verrà approvata una manovra finanziaria senza precedenti, eguale a quella Amato del 1993. Quaranta miliardi di euro che verranno tolti dai servizi pubblici dello Stato senza che ciò venga contrastato dall’opposizione. Lo spauracchio della Grecia e le intimidazioni delle varie banche centrali e fondi monetari, con il plauso del PD e del presidente della repubblica Napolitano, hanno spento sul nascere ogni forma di protesta contro questi tagli. E’ una tendenza che va avanti già da diversi anni. Si protesta su tutto, ma quando viene il momento della manovra finanziaria (che un tempo costituiva il fulcro delle proteste che accendevano l’autunno), vige nel paese uno strano unanimismo, come se fosse possibile parlare di tutto tranne delle finanziarie. E invece dovrebbe essere proprio la finanziaria decisa dalle banche europee il vero campo di battaglia sul quale misurare la vitalità e la credibilità delle opposizioni. E invece, incredibilmente, abbiamo in Italia un centrosinistra che appoggia il ministro delle finanze Tremonti sulla giusta durezza dei provvedimenti economici, e un centrodestra che invece fa la lotta al suo ministro cercando di tagliare il meno possibile e dare slancio ai consumi. Sembra una barzelletta, ma è la politica italiana. Un governo che si oppone ad un suo ministro che invece riceve il plauso delle opposizioni perchè faccia più tagli possibili cercando di mantenere il suo paese in linea coi “parametri europei”. E meno male che stavamo vivendo la stagione del risveglio politico delle opposizioni…