Per una lettura antimperialista della vicenda del nucleare iraniano

Per una lettura antimperialista della vicenda del nucleare iraniano

 

Per poter anche solo commentare brevemente le ricadute del tanto sospirato accordo sul nucleare riguardante l’Iran siglato da sette paesi (Iran, Gran Bretagna, Francia, Germania, Usa, Russia e Cina) occorre contestualizzare il tutto in una visione d’insieme degli equilibri e dei rapporti di forza in campo. Come mai gli Usa hanno spinto tanto sul siglare un accordo con l’Iran? Innanzi tutto c’è da dire che questo riguarda principalmente il nucleare: la revoca delle sanzioni poste come barriere internazionali al commercio per la prima volta nel 2002 verranno infatti ridiscusse soltanto a partire dal 30 giugno del 2015, giorno in cui il piano d’azione siglato pochi giorni fa si tradurrà in testo definitivo con annessi al seguito. Vi si può riscontrare senz’altro anche un tentativo di arginare la voglia di ascesa della borghesia transnazionale saudita. Non sfugge infatti la mancanza al tavolo delle trattative del Consiglio di Cooperazione del Golfo così come di Israele, il cui malcelato scontento si ritrova anche tra le fila dei repubblicani al Congresso Usa.

L’Arabia Saudita è senz’altro un alleato degli Stati Uniti per quanto riguarda i giochi medio-orientali, così come Israele, per quanto riguarda il piano di destabilizzazione del governo siriano di Assad: ma non dobbiamo pensare a queste alleanze come ad un qualcosa di monolitico e anti-dialettico; non dobbiamo commettere l’errore di considerare solo il conflitto fra le classi, bensì dobbiamo analizzarlo anche per come si esplica entro le classi. Non può sfuggire dunque il tenore di alcune dichiarazioni di Riyadh nel bel mezzo delle trattative sull’accordo con l’Iran, quando la dinastia di Al Saudi ha affermato che se l’Iran avesse ottenuto la sua bomba nucleare l’Arabia Saudita non solo non sarebbe stata a guardare, ma che anzi, sia che il negoziato fosse andato in porto, sia che fosse fallito, essa si sarebbe dotata di testata nucleare. Si tratta di un’Arabia Saudita la cui classe dominante, legata indissolubilmente agli interessi del petrolio e delle risorse energetiche, sta sperimentando nuove forme di apertura all’estero del mercato dei titoli e avviando importantissime speculazioni nel campo edilizio e dei trasporti. Un’Arabia Saudita la cui borghesia a controllo del paese sta cercando in tutti i modi di ritagliarsi un posto di potenza nel medio-oriente, dimostrando una maggiore autonomia in termini di politica estera, per la quale il suo intervento congiunto con le altre potenze sunnite in Yemen contro i ribelli Houthi sostenuti da Teheran non è altro che l’ultima prova di forza. Ci sono voluti anni perché sulla base dell’ OPEC e delle varie sovra-strutture  del golfo e del Nord Africa si tentasse di creare un’area di libero scambio quale il Gafta (o Area Araba Allargata di libero scambio – controllata dal Consiglio Economico e Sociale del Consiglio di Cooperazione del Golfo), sulla base di una tendenza alla “regionalizzazione”  in senso panarabo dell’economia che non è certo nuova in questa fase di globalizzazione, ovvero di internazionalizzazione dei fattori capitale e lavoro. I grandi capitali “islamici” hanno iniziato da tempo a puntare ad una propria base territoriale: i paesi arabi del Golfo (Bahrein, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti) sono diventati a partire dal 1° gennaio del 2008 un Mercato Comune dotato di un Consiglio monetario collegiale (costituitosi nel 2009), con un esercito comunitario di 100.000 uomini annunciato a fine 2013. Essi puntano per il 2020 ad ottenere una moneta comune che aspira a soppiantare il dollaro nel commercio del petrolio. Dal punto di vista del potenziamento militare, sono del 2014 gli ultimi dati sugli acquisti di armi dell’Arabia Saudita per un totale di 6,5 miliardi di dollari, mentre insieme con gli Emirati Arabi essa ha importato in tutto 8,7 miliardi di armi durante lo scorso anno (più del valore delle importazioni dell’intera Europa Occidentale). Arabia Saudita, EAU e Giordania sono tra quei paesi che hanno fatto il salto dagli acquisti alla produzione, cominciando ad investire nella creazione di un’industria militare nazionale di modo che la classe dirigente possa svincolarsi dalla pregressa dipendenza nei confronti degli Usa in termini di politica estera, oltre che diventare fornitrice di armi per i propri alleati ed estendere la propria egemonia. L’Arabia Saudita sta inoltre avviando una serie di consistenti investimenti pubblici finalizzati alla realizzazione di moderne infrastrutture nel campo dei trasporti e delle telecomunicazioni: sta provvedendo al rilancio e la costruzione dal nulla di infrastrutture come metropolitane, pipelines, ferrovie e autostrade tra questa e il Bahrein, Iraq e altri paesi; sta stringendo partnership con società quali Italfer e altre industrie edilizie e di costruzione. Questo ambizioso piano verrà finanziato con i proventi del petrolio, la privatizzazione di circa 200 imprese pubbliche e il coinvolgimento di investitori privati, in particolare esteri: si tratta di misure tese chiaramente a sacrificare interessi locali in favore di interessi legati ad un’apertura dei mercati, interessati ad una mobilità transnazionale in quanto capaci di approfittarne.

Contrastava con questo piano la Siria con il Libano, spalleggiata dall’Iran, la quale dopo un periodo di nazionalizzazioni aveva dato vita ad una serie di liberalizzazioni nei confronti degli investimenti stranieri anche in termini di esenzione di tasse e fees, creando quegli scompensi nella struttura sociale che avrebbero fatto inizialmente da appiglio alla cosiddetta “rivoluzione siriana”, ben presto rivelatasi quale tentativo di destabilizzazione esogeno. Prima della rivoluzione 2/3 dell’esportazione siriana e 90% del petrolio siriano erano diretti verso paesi europei. I bandi del 2011 sulle importazioni di petrolio, però, hanno comportato una concatenazione negativa di effetti in termini di ricadute sul cambio, sulla bilancia dei pagamenti e sul finanziamento estero diretto, riguardante soprattutto il petrolio: giganti come la Total attive dal 1988 in territorio siriano annunciano la loro dipartita. Sempre nel 2011 Siria, Iran e Iraq firmarono un accordo che prevedeva la costruzione di un gasdotto che avrebbe dovuto diramarsi dall’iraniana Assalouyeh fino a Damasco attraverso il territorio iracheno. Ciò avrebbe trasformato la Siria in un centro nevralgico di passaggio di risorse energetiche ma anche di assemblaggio e produzione, congiuntamente con le riserve del Libano. Poco dopo venne annunciata dal governo di Assad la scoperta di un voluminoso bacino di gas nella regione centrale della Siria, ovvero l’area di Qarah vicino Homs: questo avrebbe sicuramente comportato per i suoi partner commerciali di fiducia, Iran e Russia, da una parte un ottimo sbocco sul mediterraneo e quindi sui mercati europei, dall’altra un buon modo per integrare vicendevolmente le produzioni e la compra-vendita di risorse energetiche.  E’ in questo senso che dobbiamo leggere la tendenza all’abbassamento del prezzo del petrolio che altro non è la conseguenza di immissioni di enormi quantità di oro nero nel mercato da parte di OPEC e Usa che mette enormemente in difficoltà Russia (già colpita negli interessi dalla mancata realizzazione del South Stream ucraino a causa del golpe di Kiev appoggiato da Ue e Usa) e l’Iran, indebolito dalle sanzioni.  Quest’ultimo condivide con il Qatar la sovranità sul più grande giacimento di gas naturale al mondo, il “South Pars-North Dome field”, compreso tra le acque del Golfo e le terre iraniane: esso costituisce circa il 20% delle riserve mondiali di gas naturale. Non solo, l’Iran si pone in netta competizione con Israele per quanto riguarda il Bacino del Levante, una riserva di gas naturale situato nelle acque tra Cipro e Gaza. C’è da dire, inoltre, che l’Iran ha inaugurato fin dal febbraio 2008 la nuova Borsa del Petrolio dell’Isola di Kish (che allora era soltanto una zona di libero scambio) che in una prima fase funzionava solo in dollari come le altre due Borse sugli idrocarburi (una situata a New York, l’altra in Gran Bretagna), a partire dal 2011 ha stabilito che gas naturale, petrolio greggio e suoi derivati fossero trattati anche in Euro, in Yen, in Rial iraniano e in Rublo russo. L’Iran è quarto al mondo per riserve di oro nero e secondo per gas naturale. Se il meccanismo di revoca delle sanzioni funzionasse, i barili di petrolio che si riverserebbero in un mercato già saturo di offerta grazie alle tecniche del fracking statunitense e la produzione indiscriminata promossa dagli stati dell’OPEC scompaginerebbero la loro tattica di guerra al ribasso dei prezzi facendo crollare questi ultimi in maniera indiscriminata, incontrollabile.

A preoccupare così tanto Israele e Arabia Saudita con Emirati al seguito è lo status di competitore regionale che può essere assunto dallo stato iraniano alla luce di questa “apertura diplomatica”, politica ed economica: ad essere in ballo c’è il bilancio di potere nella regione medio-orientale e la prospettiva di proiezione a livello internazionale di quegli interessi di classe transnazionali capaci di porsi come tali. A niente vale la rassicurazione sul parziale smantellamento dei dispositivi nucleari e i vincoli alla sperimentazione per i prossimi 10 anni (5 anni in meno rispetto a quanto proposto dall’amministrazione Obama). L’apertura del mercato da quasi un miliardo di dollari unitariamente al fatto che nonostante l’embargo le aziende italiane e non solo hanno comunque continuato a siglare affari con le imprese iraniane per 1,2 miliardi di dollari nel 2014 potrebbero far tornare il volume degli scambi a circa 7 miliardi di dollari dei “tempi d’oro”.  Ma soprattutto le imprese di Germania e Francia, i paesi “forti” dell’Unione Europea, godrebbero di vantaggi enormi: il governo di Teheran ha infatti stimato che il paese necessita di circa 300 miliardi di dollari di investimenti esteri diretti per rilanciare la crescita secondo gli obiettivi stabiliti. Secondo dati del 2012, delle circa 400 società estere con investimenti diretti in Iran le coinvolte sono quelle tedesche, norvegesi, inglesi, francesi, russe, sud coreane, svedesi e svizzere. Vi sono joint venture tra le grandi imprese multinazionali come Nestlè, Coca Cola e Pepsi; sono attive aziende come Total, Statoil, Shell e Gazprom.

Alla luce di tutto ciò, occorre quindi ribadire che nel momento in cui si usano termini di comodo come Arabia Saudita, Israele, Usa così come altri nomi di nazioni, stiamo semplificando la complessità dettata dalle interrelazioni di classe, tra ed entro le classi e i capitali: oltre l’unitarietà nazionale, oltre le motivazioni ideologiche, culturali o religiose. Spiegare i conflitti che si stanno esplicando in medio-oriente secondo i criteri di sunniti vs. sciiti e alawiti, secondo la lettura del fondamentalismo religioso, è riduttivo e fuorviante, così come spiegarlo in termini di alleanze tra paesi quasi fosse una partita di Risiko. In questo senso allora possiamo non stupirci nel momento in “la Russia”, “alleata dell’Iran e della Siria”, dopo aver dichiarato la rinunzia alla costruzione del South-stream, ha annunciato a seguito del Vertice energetico di Ankara la costruzione di un nuovo gasdotto che dovrebbe portare il gas russo fin nel mediterraneo passando dalla Grecia e dalla Turchia, così come il potenziamento di quelli già esistenti sul suolo turco e una serie di altri vantaggi per Istanbul nonostante il comprovato appoggio di Erdogan ai battaglioni dell’IS. Dobbiamo invece cogliere la portata economica concreta, reale, di una situazione in continua ridefinizione. “Per qual motivo, con quali classi, per quale fine politico”. Occorrerebbe una seria analisi in termini di struttura economico-produttiva per cogliere le sottili differenze che albergano in questa parte del mondo dove si stanno concentrando una serie di interessi dagli effetti capaci di influenzarci più di quanto pensiamo. La formula del “nucleare pacifico” che campeggiava sulle prima pagine dei giornali dopo l’istituzione del negoziato non è altro che un velo di Maya su un sistema capitalistico sempre più esacerbato dalle sue contraddizioni: in un modo sempre più votato alla guerra, incrinato dalla competizione sfrenata dei grandi capitali transnazionali, questo accordo non può che rappresentare uno dei tanti balletti tattici frutto degli odierni rapporti di forza tra le borghesie dominanti o aspiranti tali. Gli accordi di pace e le amicizie diplomatiche non sono altro che una breve parentesi nell’orizzonte di guerra del capitalismo: “La verità del nostro tempo, della guerra in corso, degli attuali tentativi di concludere la pace consiste nella spartizione del bottino imperialista” ( V. Lenin, Pacifismo borghese. Pacifismo Socialista.).

Qualche fonte, da assumere con moderazione e spirito critico:

http://contropiano.org/internazionale/item/30033-svolta-sul-nucleare-iraniano-israele-e-arabia-saudita-furiosi

http://www.repubblica.it/esteri/2015/04/04/news/usa_pronta_una_superbomba_se_l_accordo_con_l_iran_fallisse-111228357/?ref=HREC1-4

http://www.repubblica.it/economia/2015/04/03/news/iran_petrolio_commercio-111113414/

http://nena-news.it/israele-respinge-laccordo-di-losanna-con-liran/

http://nena-news.it/analisi-accordo-su-nucleare-iraniano-non-allontana-una-nuova-guerra/

http://nena-news.it/raggiunto-accordo-sul-nucleare-iraniano-ma-la-battaglia-continua/

http://www.infopal.it/netanyahu-laccordo-sul-nucleare-lascera-libero-liran-di-costruire-armamenti/

http://www.infopal.it/hamas-divisa-sullaccordo-sul-nucleare-iraniano/

http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/mediooriente/2014/03/28/obama-nessun-cattivo-accordo-con-iran_8136cc80-87a3-40e9-bc86-f31b701c4362.html

http://www.aljazeera.com/news/2015/04/saudi-arabia-israel-oppose-iran-nuclear-deal-150401061906177.html

http://www.newsweek.com/saudi-arabia-keeps-hinting-it-would-go-nuclear-if-iran-does-319131

http://www.independent.co.uk/news/world/politics/iran-nuclear-talks-prospect-of-deal-with-iran-pushes-saudi-arabia-and-israel-into-an-unlikely-alliance-10145019.html