Orizzonti elettorali

Orizzonti elettorali

 

Premessa

Come sappiamo, da più di un secolo le pagine di Marx e di Lenin sono state utilizzate, nel corso delle continue riletture interpretative, per affermare tutto e il contrario di tutto. Sulle loro pagine si sono basate di volta in volta le impalcature più contraddittorie, forti di quella frase o di quell’espressione su cui fondare la propria teoria, facendosi scudo del richiamo a una lettura più o meno autentica del pensiero o delle intenzioni dei due giganti del socialismo. Paradossalmente, sta in questo la forza del loro pensiero e della loro azione, e contestualmente la povertà di chi agita il talmud senza capirlo, cercando una legittimazione a sinistra sventolando come santini frasi e mozzichi di pensiero completamente snaturati da ogni contesto. Infatti, sia il pensiero di Marx che di Lenin si situano nella concretezza storica del loro agire, al di fuori della quale è impossibile utilizzare correttamente i loro esempi. Lontani da ogni dogmatismo, non si possono comprendere i loro testi senza averne un preciso riferimento storico. Ogni loro pensiero derivava infatti dalla propria militanza politica, che ne determinava le polemiche e le riflessioni, e infine i tentativi di sintesi. Le loro parole sono, come dice giustamente Quadrelli, una guida per l’azione, e non la verità alla quale attenerci astoricamente.

Pochi esempi come il problema elettorale esemplificano al meglio questa tendenza. Ad ogni elezione infatti i depositari del Lenin-pensiero citano i passaggi di Lenin in cui polemizza contro i sinistri del partito e delle forze rivoluzionarie sulla questione elettorale. Decontestualizzando completamente le sue indicazioni, leggono Lenin come se avesse parlato una volta e per sempre, e non inserendo il proprio pensiero all’interno di una fase politica particolare e di una polemica assolutamente contingente.

Detto questo, quindi, è assolutamente vero che Lenin diede indicazione di non abbandonare al nemico di classe quegli spazi che la formalità democratica lascia alle rappresentanze politiche. In questo quadro, infatti, la creatività di Lenin sta proprio nel saper giocare su tutti i campi, o, per meglio dire, utilizzare tutto il campo di gioco. Perché infatti rinchiuderci nell’area di rigore, se lo spazio di gioco è più ampio e può essere sfruttato meglio? Il Partito Bolscevico, infatti, una volta conquistata la sua forza (ma non ancora l’egemonia) all’interno della classe operaia, ha il dovere di rappresentarla ovunque, di portare il conflitto di classe in ogni luogo che il nemico lascia all’avversario. Le assemblee rappresentative sono uno di quei luoghi. E’ proprio polemizzando contro gli ultrasinistri del movimento rivoluzionario che Lenin ha sempre scelto la strada del pragmatismo e della creatività per portare a casa il risultato. Come rientrare su un treno scortato dall’esercito tedesco in Russia; come firmare una pace catastrofica col nemico tedesco per salvare il socialismo; o come reintrodurre lo sviluppo della piccola proprietà privata per rafforzare l’economia devastata dalla guerra civile. In ogni frangente, non è la morale o l’eticità delle scelte a condizionare l’agire politico di Lenin, ma l’obiettivo di rafforzare il socialismo e la rivoluzione.

Il senso di quelle scelte oggi

 

Come cogliere il senso delle scelte di Lenin oggi, dal punto di vista elettorale? Lenin parlava a un partito rivoluzionario diviso su una questione tattica. Oggi dove si trova questo partito rivoluzionario al quale parlare, al quale proporre una scelta tattica in vista di un obiettivo maggiore? Oggi non è presente neanche in nuce l’embrione di un partito di classe. Non basta definirsi partito, o peggio ancora partito comunista, per essere un partito di classe. Per partito di classe non intendiamo un partito che abbia l’egemonia sul mondo del lavoro. Infatti, ed è una delle ulteriori incomprensioni delle varie interpretazioni di Lenin, il partito Bolscevico è stato, fino al 1917, minoranza all’interno del proletariato russo e all’interno dei Soviet. Solamente con un colpo di mano infatti i bolscevichi riuscirono a superare la palude in cui i menscevichi, cadetti e socialisti rivoluzionari non sapevano (e non volevano) uscire, producendo la fuga in avanti della rivoluzione. Ma quantitativamente il proletariato russo era costituito per la stragrande maggioranza dai contadini poveri e dai contadini piccolo-borghesi, e le opzioni politiche che organizzavano tale mondo erano maggioranza all’interno delle assemblee rivoluzionarie e nei soviet. Quello che però Lenin riuscì a cogliere era la tendenza qualitativa che vedeva nello sviluppo della classe operaia il nuovo modello sul quale si basava la produzione capitalista. Insomma, se i contadini russi erano maggioranza, qualitativamente il modello di sviluppo si andava basando, e sempre più si sarebbe basato, sull’operaio industriale. Proprio all’interno di questa parte di società Lenin riuscì a conquistare politicamente il proprio ruolo di rappresentanza.

Dunque, il Partito Bolscevico, cioè l’avanguardia organizzata della classe operaia, doveva portare la lotta di classe anche all’interno della Duma, ben sapendo che era uno dei tanti, e non il più importante o l’unico, luogo dove incidere sui rapporti di forza. E infatti, conseguentemente a tale impostazione, i rappresentanti del Partito alla Duma non furono mai né i dirigenti politici di primo piano all’interno del partito, né gli organizzatori politici della classe. Ma, più semplicemente, dei funzionari, degli emissari, sempre controllati dal Partito e sempre revocabili da esso. Il cuore dell’organizzazione, insomma, era fuori – e contro – il parlamento.

Tornando all’oggi, dunque: non solo non esiste l’organizzazione di classe, neanche in fieri e neanche “socialistica” senza per questo essere apertamente “comunista”, ma nel tentativo odierno dei presunti partitini comunisti il rapporto è completamente rovesciato: questi partiti, e il PCL di Ferrando in particolare (vista la completa abdicazione del PRC  e del PDCI su tale fronte), sono completamente assenti da ogni lotta di classe, non esistono nella società, ma chiedono il voto unicamente in base a un moto ideologico di adesione a presunti valori comunisti. Oltretutto, è tutta la dirigenza del partito a candidarsi, chiarendo il fatto che per il PCL il parlamento è il luogo principale in cui far valere le proprie d idee. Non esistendo nella società, Ferrando (et similia) cercano nel voto elettorale quella forza che altrove non hanno. Ma il problema non è l’assenza di voti. Rifondazione, i Comunisti Italiani, il PCL e via dicendo hanno perso ogni valenza elettorale perché scomparsi da tempo dalla società, e non il contrario. Assenti da ogni forma di conflitto (se non accodandosi con le bandierine di turno al solito corteo-testimonianza), dopo aver vivacchiato per qualche anno a cavallo fra gli anni novanta e i duemila, sono giustamente scomparsi. L’assenza elettorale rispecchia la loro assenza nelle lotte, non il contrario come vorrebbero farci credere i dirigenti di quei partiti, che intimamente se la prendono con i lavoratori che non li votano perché poco coscienti.

Dunque, seppure esistesse il micro partito con le parole d’ordine più rivoluzionarie, quelle più condivisibili e sacrosante, questo non sarebbe altro che la parodia di una forza politica, che non si basa sulla propria idea di mondo ma sulla sua capacità d’incidere nei processi reali. La capacità d’incidere di questi partiti è pari a zero, dunque non hanno alcuna ragion d’essere.

Il cambiamento del contesto e la coscienza delle “masse”

 

Oltre a ciò, bisognerebbe anche riflettere, come abbiamo provato a fare altre volte, sul ruolo che oggi giocano le assemblee rappresentative, ormai completamente spogliate di ogni potere reale che non siano le briciole che determinate strutture sovranazionali lasciano ancora agli stati nazionali. Dunque ci sembra sbagliato anche il momento storico in cui determinate “forze” politiche si affannano a chiedere il nostro voto. Come se anche un relativo successo elettorale poi incidesse davvero nei meccanismi di potere. Le decisioni politiche strutturali di una società, e cioè quelle che concernono la regolamentazione del mercato, le leggi sul lavoro, la qualità del proprio stato sociale, le leggi che governano l’economia, sono state completamente espropriate ai parlamenti e ai governi nazionali per essere appaltate ad alcune strutture europee non elettive. Passaggio di poteri che è stato ovviamente il frutto di decisioni politiche dei governi del centrosinistra e del centrodestra, che dunque non sono stati “scippati” di tale potere, ma che hanno contribuito a costruire questa nuova forma di governamentalità, che sposta il suo peso dalle istituzioni elettive a quelle tecniche. Proprio per impedire che il normale gioco democratico liberale potesse inficiare le decisioni fondamentali sul quale si basa il nostro modello di sviluppo.

Per di più, sembra anche esserci una certa intuizione di larga parte della popolazione su questo fatto. Infatti, certo scetticismo qualunquista e certo astensionismo crescente non si basano più sulla retorica del “destra e sinistra sono uguali” (discorso  centrale del qualunquismo), ma dal “destra e sinistra non riuscirebbero comunque risolvere i nostri problemi”. Che a questa “intuizione” non segua alcuna presa di coscienza, per prodursi poi in un generico qualunquismo anti-casta è più un problema dell’eventuale soggettività che dovrebbe organizzare tale conflitto latente che della popolazione stessa, che in assenza di proposta politica si affida al grillismo o al sempre attuale berlusconismo “di protesta”, che infatti, nonostante tutto, riesce ancora a far credere alla gente che votando Berlusconi ci libereremmo da tali “vincoli esterni” (che, politicamente, sono rappresentati dal PD e da Monti, che infatti governeranno assieme, rendendo palese la differenza fra l’opzione politica del vincolo esterno e quella che vi si oppone, cioè Berlusconi, Grillo e il leghismo).

Il giorno dopo

 

Da lunedì sera i nostri problemi politici rimarranno gli stessi, a prescindere dai risultati elettorali. L’assenza di ogni forma di autonomia d’azione e di pensiero è il vincolo al quale siamo relegati, e l’obiettivo strategico è quello di ricostruire una forma embrionale d’organizzazione, che sappia stare nelle lotte collegandole politicamente (che non significa che i compagni che stanno in una lotta poi si muovono fisicamente in un’altra lotta, come qualcuno crede, ma essere capaci di fare una sintesi politica che tenga insieme le varie vertenze). Fra chi lotta contro l’alta velocità in Val di Susa e chi sciopera nelle fabbriche FIAT, fra chi lotta contro la privatizzazione dell’acqua e chi scende in piazza contro la repressione a Teramo, a chi manifesterà in  piazza a Milano il 16 Marzo, esiste un insieme di legami politici che possono essere sintetizzati. Ma la credibilità di questa sintesi sta solo in chi porta avanti tali lotte, non da chi dall’esterno ne ricerca il risultato elettorale.

Qualsiasi cosa accadrà domani, il nostro compito rimane inalterato. L’unico dato positivo che potrebbe emergere sarebbe la fine del bipolarismo come l’abbiamo conosciuto in questi venti anni. Un bipolarismo artificiale e costruito senza alcuna base reale, e che infatti ha mostrato sin da subito la sua inadeguatezza a ricomporre gli scontri presenti all’interno della varie parti della borghesia politica. Il ritorno di un centro politico, che di volta in volta ricerchi le sue alleanze con una destra o con una “sinistra” dello schieramento parlamentare potrebbe portare dei margini di autonomia maggiori, o quantomeno una certa capacità di condizionamento oggi scomparsa. Non è detto, e sarebbe comunque ininfluente se a questo diverso contesto non corrisponderà una nostra capacità d’organizzazione.