Nomen omen

Nomen omen

Se disgraziatamente non è possibile riassumere le decisioni strategiche di un complesso sistema di alleanze come quello Nato nella figura del suo portavoce Jens Stoltemberg, la tentazione di rilevare il “valore augurale” del suo nome rimane certamente forte quando si apprendono notizie del calibro di quella che ci apprestiamo ad analizzare.
È sì forte almeno quanto la notizia che gli Usa, per bocca dell’attuale amministrazione governativa, o la Nato, per bocca appunto del nostro volto pubblico del sistema di difesa, hanno dichiarato la cessazione del trattato Intermediate-Range Nuclear Forces (INF), accordo siglato nel 1987 da Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov sulla scia della “distensione” (leggi agonia dell’URSS) tra le due grandi potenze, in una fase storica che per il senso comune sembra ormai fare parte di un passato quasi dimenticato, certamente molto lontano.

 Una notizia che alle latitudini da provincia dell’impero – e non di quelle ben più realistiche da linea del fronte, visto il ruolo che l’Italia continua a giocare nella strategia Nato verso Est e le numerose implicazioni politico-militari cui la permanenza nella Nato costringe il paese – non ha fatto più di tanto scalpore. Meglio trastullarsi con le attività ludiche predilette dal figlio del ministro Salvini o, ancora di più, sul numero di coltellate che servono a uccidere un carabiniere.
Questo fatto, invece, se fosse collocato correttamente nell’attuale contesto politico e militare, se fosse coerentemente ricondotto alla sua storia, ovvero la storia dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico e a quella degli anni che hanno visto la potenza imperialista dominante all’apice della sua egemonia e al suo successivo e inevitabile declino, assumerebbe tutto un altro valore e non verrebbe relegata ai telegrafici lanci d’agenzia o allo studio da parte delle agenzie militari di settore.
Quest’operazione, di certo non semplice, si presenta come sempre più necessaria all’interno di un’area politica di classe, come uno dei temi su cui il punto di vista di classe deve tenere fermo l’occhio della critica e che se si volesse riassumere in un lemma, questo sarebbe certamente la tendenza oggettiva alla guerra.
La tendenza alla guerra, un fenomeno non di certo nato oggi e che in fase imperialistica dispiegata quale siamo assume sempre di più un carattere portante, deve tornare a far ragionare una soggettività antagonista sul ruolo che la sua controparte di classe gioca nello scacchiere internazionale – tanto più se collocata a pieno titolo nella catena di comando politico-militare della frazione imperialista più aggressiva – e sulle ricadute politico-pratiche che questo schieramento necessariamente comporta per una prassi conflittuale.

Non si sta parlando di buoni e cattivi, non ci si sta affidando a facili analisi riduzionistiche tra astratti campi avversi o a divisioni fittizie che non possono che scadere nel ben noto “campismo”. L’imperialismo è una fase e, senza scomodare i classici, diamo per assunto che sia ancora la nostra.
Alla frazione imperialista “più aggressiva”, quindi, nella lotta per la conquista dei mercati con ogni mezzo necessario ne corrisponde – nei momenti di lotta aperta e acutizzazione dello scontro – un’altra, quella “debole”, anche se non necessariamente, valutata in una prospettiva storica, la meno pericolosa.
Individuare questa prima frazione non dovrebbe essere poi così difficile visto che, com’è noto, il tracollo dell’URSS e il tornante storico cui è seguito ci hanno lasciato uno scenario dove lo spazio del campo progressista è rimasto vacante, o almeno inconsistente fino al primo decennio del XXI secolo, mentre la sfera d’influenza americana ha continuato a vivere della sua straordinaria e schiacciante superiorità politico-militare. Tuttavia, non appare scontato ricordare alcuni degli aspetti che caratterizzano questa superiorità politico-militare e la conseguente posizione egemonica che l’ormai maturo – e sotto molteplici punti di vista in declino – impero statunitense continua a detenere.

Ad esempio, il semplice calcolo comparato delle spese effettuate nel settore bellico sul piano globale risulta essere sempre un esercizio efficace. Gli Usa, infatti, nel 2018 si attestano saldamente al primo posto riuscendo a garantirsi una spesa di 649 miliardi di dollari, una cifra che stacca di quasi tre volte l’impegno cinese in ambito militare (che pure occupa il 14% della spesa globale) e che supera ampiamente di dieci volte la spesa della bellicosa Federazione Russa. Secondo l’ultimo rapporto del SIPRI, centro studi che monitora costantemente il settore dell’industria bellica sul piano globale, nonostante la spesa statunitense sia in calo tendenziale dal picco raggiunto nel 2010, rimane di gran lunga la più imponente sia in termini assoluti – copre il 36% della spesa mondiale in armamenti – sia in termini relativi superando senza sforzi i successivi otto paesi che spendono di più nel comparto bellico. Tra questi la Federazione Russa che, tuttavia, viene buttata fuori dal club dei primi cinque stati militaristi e si attesta al sesto posto con, incredibile ma vero per una potenza che come principale attività sembra avere quella di minare gli interessi strategici statunitensi, 61 miliardi di spesa nel comparto bellico. Quasi un decimo degli investimenti che la prima potenza del globo ha scelto di impegnare per l’anno passato nella difesa dei suoi interessi strategici.

Alla luce di questo semplice quanto parziale dato la retorica con cui viene agitato lo spauracchio russo appare decisamente ridimensionata. Sia chiaro, nessuno sottovaluta il potenziale dell’erede di quella che era la seconda potenza nucleare globale, l’aggressività della formazione economico-sociale russa che, soprattutto a partire dal secondo decennio di questo secolo ha dimostrato una rinnovata capacità politico-diplomatica e finanche militare con il riuscito intervento a supporto della Repubblica Araba Siriana. Si tratta solo di dare a Cesare quel che è di Cesare e di fronte alle continue e insindacabili decisioni unilaterali che vengono annunciate dall’amministrazione statunitense –  con particolare e rinnovata frequenza da quando alla Casa Bianca siede un eccentrico costruttore – rese inappellabili anche ad ogni forma rituale del diritto internazionale dalla formula magica della ‘tutela degli interessi nazionali degli Stati Uniti d’America’ – tra cui figura da ultima la dichiarazione di non operatività del trattato INF -,  l’azione di tutela degli interessi strategici russi appare come una goccia nel mare di rivendicazioni americane e, quantomeno, non il primo problema per la sicurezza delle “democrazie” occidentali.

Problematica, anzi, decisamente pericolosa per la sicurezza delle “democrazie” occidentali dovrebbe essere considerata invece la permanenza e il rafforzamento della presenza statunitense, in veste Nato e non, sul territorio europeo e in particolar modo su quello italiano. Quantomeno degna di nota per la tutela della sicurezza collettiva dovrebbe essere considerata la presenza di testate nucleari che affligge il nostro paese da ormai troppo tempo, come l’impegno di quattro potenze ufficialmente non nucleari come Italia, Olanda, Belgio e Germania, unite alla recalcitrante Turchia, a sostituire le testate nucleari B-61 che risiedono nei loro territori con le tecnologicamente più avanzate bombe B61-12 entro il 2020, gentilmente fornite dall’industria americana.

Ancora più interessante, per chi si volesse preoccupare del ruolo che l’Italia ricopre in ambito Nato e quindi rispetto a quella che sembra essere la preoccupazione principale a proposito di sicurezza collettiva, ovvero l’ingerenza russa, potrebbe essere rilevare la totale abnegazione con cui il governo italiano e le forze armate italiane abbracciano le operazioni di “sicurezza” condotte ad Est.

Il governo Conte, mentre si preoccupa di figurare come mediatore e agente di distensione nelle relazioni russo-europee con evidenti fini commerciali e tenendosi buono l’ormai celebre contingente imprenditoriale d’italiani in Russia (questi instancabili patrioti che sembra non dormano la notte per far crescere il Pil della nazione), conferma di buon grado la partecipazione italiana alla forza di reazione rapida Nato sotto comando Usa, dispiegabile a Est in caso di necessità a partire e dal 2020. A questo si sommano le costanti esercitazioni partecipate dai contingenti italiani in Lettonia, quelle promosse da uno dei governi più fanaticamente anti-russo ovvero la Polonia, e lo stanziamento di caccia Eurofighter Typhoon presso le basi aeronautiche di Romania e Lettonia.

Insomma, con una mano si dà, con l’altra si toglie. E se questa incoerenza di fondo giustamente non sembra generare afflizione morale nella classe dirigente italiana, la quale persegue un lucido piano di subordinazione agli interessi statunitensi, non siamo altrettanto certi che non genererà fastidi nelle sale del Cremlino.

La Federazione Russa, in effetti, rispondendo all’intenzione statunitense di schierare nuovamente in Europa dei missili nucleari a gittata intermedia – proprio quelli banditi dal trattato INF – ha dichiarato che procederà meccanicamente a puntare le proprie testate sulle zone in cui i missili saranno dislocati. E lo stesso trattamento sarà riservato, of course, anche a coloro i quali si preparano a ospitare le aggiornatissime B61-12 made in Usa: Olanda, Belgio, Germania, la recalcitrante Turchia e, come dicevamo poc’anzi, l’Italia.

Se appunto, per tornare all’annuncio da cui siamo partiti, la decisione formalizzata da Stoltemberg non fosse il prodotto di una lucida quanto ferrea strategia di dominio perseguita da Washington, sarebbe opportuno liquidarla come semplice dimostrazione di ottusità ma, purtroppo, non è così. E chi si propone di contrastare tale strategia dovrebbe quantomeno cominciare a riappropriarsi di parole d’ordine che questo contrasto lo esemplificavano al meglio. Scandire quelle tre paroline in inglese che ogni militante medio non ha mai avuto difficoltà nel pronunciare e che suonano all’incirca così: Yankee-go-Home!