Neoliberismo progressista e populismo reazionario… fra la via Emilia e il West
I risultati delle recenti elezioni regionali, soprattutto quelle emiliane, ci consegnano alcune indicazioni su cui vale la pena tornare a riflettere provando ad andare oltre il miope sospiro di sollievo di una “sinistra” talmente disastrata che, di fronte alla prospettiva della “brace”, arriva a salutare con malcelata gioia perfino il possibile ritorno della “padella”. Iniziamo però con l’analizzare chi ha vinto e chi ha perso, almeno dal nostro punto di vista.
Anche se la stampa si è comprensibilmente concentrata sulla débâcle di Matteo Salvini, chi esce davvero sconfitto da questa tornata elettorale è però il Movimento 5 Stelle, che ha ormai perso, probabilmente in maniera definitiva ed irrecuperabile, ogni sua residua ragion d’essere politica e sociale. È sempre rischioso provare ad essere categorici quando si parla di politique politicienne, soprattutto in un paese in cui il trasformismo è quasi un tratto antropologico, anche perché si è trattato comunque di elezioni amministrative che hanno coinvolto solo un’esigua parte del corpo elettorale. Eppure la sensazione è che il movimento fondato da Grillo sia ormai costretto all’angolo, un po’ per l’oggettiva impossibilità di dare seguito, anche solo in parte, alle aspettative che aveva suscitato, un po’ per la serie infinita di harakiri politici inanellata dal suo gruppo dirigente. Si trova insomma in quella condizione che i politologi definiscono lose-lose, destinato cioè a perdere in ogni caso, qualsiasi cosa faccia, sia che decida di entrare stabilmente nel campo del centrosinistra sia che decida di andare avanti da solo. I grillini sono di fatto passati, nel giro di un’estate, dall’essere una forza “antisistema”, o almeno percepita come tale, al rappresentare una forza della stabilizzazione euroliberista ed ora pagano inevitabilmente pegno. I dati elettorali, da questo punto di vista, sono davvero inclementi.
Come ricorda un recente report dell’Istituto Cattaneo il 3,5% raggranellato domenica scorsa è il peggior risultato dei pentastellati in Emilia nella loro pur relativamente breve storia politica e, anche alla luce dei risultati in Umbria e Calabria, ha tutta l’aria di rappresentare un trend nazionale. Per dire: nel 2010 il candidato alla presidenza della regione del neonato movimento raccolse circa il doppio dei voti (161.056) rispetto a quelli presi da Domenico Bernini (80.823). Ancora più significativi sono poi i dati relativi al voto disgiunto e ai flussi dei consensi in uscita rispetto alle più recenti elezioni europee. Quasi 20 mila elettori (circa il 20%) dei 102mila che domenica scorsa hanno comunque votato per il M5S hanno poi deciso di esercitare la loro possibilità di votare per un candidato presidente diverso, presumibilmente Bonaccini. Rispetto ai flussi di voti in uscita, poi, del 12,9% di elettori che appena un anno fa in Emilia Romagna avevano scelto il M5S alle europee solo il 28,1% ha confermato il proprio voto in occasione delle regionali, mentre il 16,9% ha votato PD, il 16,8% ha votato per altri partiti del centrosinistra, l’8,2% per la Lega, l’1,9% per gli altri partiti del centrodestra, l’1% per altri partiti ed il resto, il 28,1%, ha invece deciso di astenersi (fonte Swg). Dopo l’emorragia di consensi a “destra” avvenuta tra le politiche del 2018 e le europee del 2019, siamo dunque arrivati all’emorragia nei confronti della “sinistra”, preludio di un riassorbimento di quella che era stata comunque un’anomalia del sistema politico italiano.
L’altro sconfitto, come accennavamo sopra, è sicuramente Matteo Salvini, anche se in questo caso ci troviamo evidentemente di fronte a quello che potrebbe apparire come un paradosso politico. La Lega, se si prendessero a riferimento esclusivamente le elezioni regionali del 2014, come pure correttamente si dovrebbe fare in questi casi, in realtà cresce di 12,5 punti (dal 19,4 al 31,9%), con un incremento di 475mila voti assoluti. Eppure questa volta il termine di paragone non possono essere soltanto le precedenti regionali, ma occorre tener conto anche dei risultati ottenuti nei test elettorali più vicini, in questo caso le elezioni europee quando, nemmeno un anno fa e sempre in Emilia, la Lega sfiorò il 34% con quasi 760mila voti. Le ragioni di questo confronto “spurio” sono ovvie, persino banali, perché è stato lo stesso Salvini a voler “nazionalizzare” ad ogni costo il voto, trasformandolo in una sorta di referendum sul governo e su sé stesso fin dall’imposizione, anche al resto della sua coalizione, di una candidata “avatar” che poi, in campagna elettorale, è stata totalmente oscurata dall’ingombrante presenza del leader leghista.
Del resto quale sia stato l’investimento politico fatto in Emilia da Salvini viene fuori anche confrontando l’impegno profuso dai diversi leader nazionali nelle rispettive campagne elettorali. Infatti, se ad esempio Nicola Zingaretti e Giorgia Meloni sono stati impegnati rispettivamente in 9 e 8 incontri pubblici a sostegno dei loro candidati, appuntamenti per lo più concentrati in un arco di tempo estremamente ridotto (2 e 3 giorni), Matteo Salvini ha invece provato a replicare il modello di campagna elettorale che gli aveva permesso di stravincere in Umbria. Il leader della Lega si è così stabilito in pianta stabile in Emilia per oltre tre settimane girandola in lungo e largo come un piazzista della Folletto e partecipando ad almeno 90 tra comizi e incontri pubblici, privilegiando soprattutto i piccoli e piccolissmi comuni. Un ritmo simile a quello di Bonaccini e addirittura di gran lunga superiore a quello della Borgonzoni, pur non essendo direttamente candidato, segno evidente della convinzione di poter portare a casa un risultato che avrebbe avuto un valore simbolico per certi versi storico. Salvini da questo punto di vista ha dunque subito una doppia sconfitta, tanto sul fronte esterno, dimostrando per la seconda volta in pochi mesi la sua incapacità tattica e sottovalutando la tenuta e la resilienza del “sistema emiliano-romagnolo”, quanto su quello interno della coalizione di centrodestra. Ma la battuta d’arresto nel suo caso è solo temporanea e a dircelo, come vedremo dopo, sono gli stessi dati elettorali che lo hanno “condannato” alla sconfitta.
Dall’altra parte chi ha vinto è sicuramente il PD che, per un altro paradosso elettorale, pur perdendo 10 punti percentuali rispetto al 2014 (è passato dal 44,5% al 34,7%) ha comunque guadagnato 215 mila voti assoluti sempre sul 2014 e circa 70 mila sulle europee del 2019, tornando così ad essere il primo partito della regione. Pur non potendolo quantificare è abbastanza chiaro come l’effetto “sardine” si sia comunque fatto sentire, quanto meno nei termini di una chiamata alle urne contro il pericolo “fascioleghista” e i dati sull’affluenza ne sono una conferma indiretta. Come si può notare nella mappa elettorale riportata qua sotto, a fronte di una crescita generalizzata della partecipazione al voto, l’affluenza è infatti aumentata soprattutto nei grandi centri urbani e nelle zone in cui il centrosinistra era già maggioranza, segno che la mobilitazione elettorale dei ceti e delle classi che oggi si riconoscono nel progetto politico del PD ha davvero funzionato. D’altronde se si analizzano i comportamenti elettorali di alcune aree delle grandi realtà urbane ci si potrà rendere conto che un fenomeno di polarizzazione molto simile si era già manifestato lo scorso maggio in occasione delle elezioni europee con una crescita sensibile del PD nei quartieri centrali e nelle zone di pregio delle maggiori città italiane.
Per chiudere questa prima parte del ragionamento va aggiunto che l’altro partito uscito vincitore dalle urne, nella disattenzione pressoché generale del sistema informativo, è indubbiamente quello guidato da Giorgia Meloni. Nel giro di un quinquennio Fratelli d’Italia è infatti cresciuta del 6,7% raggiungendo l’8,6% dei consensi e raccogliendo 185mila voti assoluti, 80mila voti in più rispetto al 2019 e 160mila voti in più rispetto al 2014, diventando di gran lunga, come dimostrano anche i sondaggi a livello nazionale, il secondo partito della coalizione di centrodestra. Dunque, al di la delle analisi autorassicuranti per lo scampato pericolo, che pure sembrano andare per la maggiore in questi giorni tra i gruppi dirigenti locali e nazionali dei partiti del centrosinistra, resta il fatto che sommate tra loro le due forze che si richiamano espressamente al populismo reazionario e al sovranismo rappresentano da sole il 40% dell’elettorato emiliano, un dato inimmaginabile solo fino a qualche anno fa nella patria d’elezione del riformismo italiano.
Arriviamo dunque all’indicazione politica più significativa uscita dalle urne emiliane ossia al fatto che la breve stagione del tripolarismo, inaugurata con l’exploit grillino alle elezioni del 2013, si sta definitivamente chiudendo. Sarebbe però un errore esiziale, soprattutto per chi mantiene viva l’aspirazione di un’autonomia politica dei subalterni, provare a leggere la nuova fase con gli occhiali del passato, immaginando cioè che il campo della politica sia tornato a dividersi, come da tradizione, lungo una linea di faglia “orizzontale” che separerebbe la destra a trazione leghista da una sinistra, per quanto moderata, guidata dal Pd. Il rischio, nemmeno troppo remoto a giudicare dai processi “costituenti” che già sono stati messi in campo, è che di fronte al paventato pericolo “fascioleghista” pezzi consistenti di quel poco che ancora rimane della sinistra antagonista e di movimento finiscano per considerare l’ingresso (o il ritorno) nell’orbita del Pd come l’unica opzione praticabile, coltivando l’illusione di poter in questo modo esercitare una qualche forma di funzione politica. Non per niente da domenica scorsa la lista “Coraggiosa” è diventata immediatamente per molti (per troppi, verrebbe da dire) il nuovo esempio da seguire.
Per evitare l’ennesima cantonata e descrivere lo scenario che si va delineando dovremmo invece prendere in prestito alcune delle riflessioni più interessanti intorno a cui ruotano gli ultimi lavori della filosofa statunitense Nancy Fraser. Da una parte si va infatti delineando in maniera sempre più chiara il campo di quello che lei definisce puntualmente come “populismo reazionario”. Il populismo à la Salvini, per intenderci, che sta progressivamente soppiantando le istanze cittadiniste dei grillini promettendo di coniugare politiche di tipo redistributivo sul piano sociale con politiche del riconoscimento di natura iper-reazionaria (preferenza nazionale, porti chiusi, tolleranza zero, ecc), rifacendosi così ad una concezione del popolo di tipo prettamente identitario. Dall’altra parte, però, e questo non ci stancheremo mai di ribadirlo, non c’è “la” sinistra, e nemmeno una coalizione progressista vagamente intesa, ma c’è il neoliberismo progressista. Ovvero il tentativo in fieri di ricomporre quel blocco egemonico che ha guidato i processi di globalizzazione fino allo scoppio della crisi e che tiene insieme i settori più dinamici della borghesia, quelli intimamente interconnessi con i flussi finanziari internazionali, e gli strati più garantiti tra i salariati e le cosiddette classi colte attraverso un mix di politiche economiche ferocemente ortodosse alle leggi dell’economia di mercato e di politiche del riconoscimento superficialmente emancipatorie sul piano dei diritti civili. Quella “sinistra”, per capirci e schematizzare, che un giorno sfila col rainbow al gay pride e quello dopo vota per il Jobs Act, quella che twitta gli hashtag col #Metoo e contemporaneamente alza l’età pensionabile delle lavoratrici, che si esprime esclusivamente in maniera politicamente corretta, ma poi lascia sfruttare i lavoratori immigrati nei magazzini della logistica. Quindi, ritornare sotto questo ombrello ideologico, anche solo per paura del diluvio “fascioleghista”, non solo rappresenterebbe un errore tattico, ma pregiudicherebbe ogni residuo della nostra credibilità politica allontanando nel tempo la possibilità stessa di ricostruire una qualsivoglia forma di insediamento sociale. Ed è sempre per questo motivo che crediamo che questa posizione vada oggi combattuta con ogni forza. Perché, per quanto questo possa non piacerci, il nostro pezzo di società, quello a cui dovremmo guardare, quello che aspiriamo ad organizzare e rappresentare, oggi non sta certamente con questa “sinistra”, anzi legittimamente la odia, ma, in larga parte, purtroppo, cerca risposte e rappresentanza proprio nel campo del populismo reazionario.
Anche in questo caso i dati che ci vengono forniti da un’elezione che formalmente è stata vinta dal blocco del neoliberismo progressista possono essere da spunto per qualche riflessione aggiuntiva. Non ci riferiamo, in tal senso, alle analisi sui comportamenti di voto dei diversi segmenti sociali, anche perché in questi giorni l’ansia da prestazione dei diversi istituti demoscopici ha portato alla produzione di analisi che dicono tutto e il contrario di tutto. Secondo il CISE della Luiss, ad esempio, il candidato di centrosinistra avrebbe fatto il pieno di voti tra gli operai, i disoccupati e gli impiegati, mentre la Borgonzoni sarebbe stata quella più votata da imprenditori e liberi professionisti. Insomma si sarebbe ritornati allo schema ideologico con cui siamo cresciuti: i padroni a destra, gli operai a sinistra (leggi). Lo stesso giorno SWG ha però pubblicato un’analisi che disegna una situazione completamente ribaltata. Solo l’11% dei votanti appartenenti alle classi popolari avrebbe votato per il PD, mentre il 39,2% avrebbe scelto la Lega, il 20,8% Fratelli d’Italia, considerando invece l’intero corpo elettorale il 48,2% di loro si sarebbe invece astenuto. Una situazione, insomma, assolutamente coerente con il cosiddetto “momento populista” (leggi). È difficile dare completamente ragione all’una o all’altra tesi, anche perché gran parte di questi dati si basano su interviste e campioni statistici limitati e sono, quindi, inevitabilmente aleatori.
C’è però un altro elemento che potrebbe aiutarci a comprendere con maggiore oggettività lo scenario che si è andato configurando dopo il voto di domenica ed è quello che prova ad intrecciare le diseguaglianze economiche di redditi e ricchezze con quella che è stata definita anche come “diseguaglianza geografica”, ovvero la lontananza non solo economica, per l’appunto, ma anche sociale, culturale e di accesso ai servizi e alle infrastrutture da parte delle grandi periferie delle metropoli ma anche dei piccoli centri anonimi delle cinture conurbane, dei piccoli e piccolissimi comuni della provincia, dei paesini delle aree montane, insomma di tutti quei “luoghi che non contano” e che sono stati lasciati ai margini dallo sviluppo economico rispetto ai luoghi dove invece si concentrano ricchezza, lavoro, servizi ed opportunità. Mercoledì scorso Marco Imarisio, dalle pagine del Corriere della Sera, ha provato in qualche modo a raccontare questa dualità riesumando un po’ goffamente la contraddizione tra città e campagna, neanche fossimo nell’Italia dell’Ottocento, alludendo in questo modo, nemmeno troppo velatamente, all’esistenza di una sorta di Vandea elettorale con cui le nostre classi dirigenti sarebbero chiamate in un modo o nell’altro a fare i conti. Ci pare una lettura fuorviante, che innanzitutto non coglie il dato essenziale, ossia che in questa fase dello sviluppo economico la la “perifericità” non è un residuo del passato, ma il prodotto ineliminabile della modernità capitalista. Il Capitale produce continuamente dualità anche all’interno dei paesi occidentali e dei loro territori, produce una continua separazione tra i “centri” e la “periferie”, tra le aree investite e valorizzate dai flussi finanziari globali e quelle lasciate ai margini, “metropolizzazione” e “periferizzazione” in questo senso sono due facce inscindibili della stessa medaglia e settori sempre più ampi della popolazione sono economicamente, socialmente, culturalmente e perfino geograficamente condannati a vivere in questi territori “periferici”.
Come sottolinea il geografo francese Christophe Guilluy il dato di fatto da cui muovere è che forse per la prima volta nella storia economica dell’Occidente i subalterni non vivono quasi più nei luoghi in cui si genera la maggior parte della ricchezza ma, soprattutto, non possono più nemmeno permettersi di viverci. Espulsi in quel “suburbano imposto” che non è né specificatamente urbano, né specificatamente rurale, né specificatamente periurbano, ma semplicemente, per l’appunto, periferico. Diventa quindi interessante, soprattutto in un contesto come quello emiliano, provare ad analizzare il “voto periferico” dal un punto di vista “geografico”. Com’era già accaduto in occasione delle recenti elezioni europee la Lega si conferma come primo partito nei comuni più piccoli, arrivando a sfiorare il 50% in quelli sotto i 2000 abitanti, con percentuali che poi decrescono progressivamente mano a mano che ci si avvicina ai comuni più grandi, fino a scendere sotto la media regionale nelle città con più di 60mila abitanti. L’andamento dei voti del PD, invece, è speculare a quello del partito di Salvini, con il consenso che cresce proporzionalmente alla dimensione del centro urbano.
Utilizzando la classificazione dell’Agenzia per la coesione territoriale è possibile anche mettere in relazione il voto con la varie tipologie di comune distinte sulla base della dimensione, della presenza di servizi pubblici fondamentali e della distanza dai centri urbani. In questo modo vengono classificati 6 tipi comuni: i comuni polo (grandi centri urbani), i poli intercomunali, i comuni delle cinture, i comuni intermedi, quelli periferici e, in ultimo, quelli ultraperiferici. Anche in questo caso i dati sono coerenti con quanto era emerso in precedenza, con la Lega che ottiene le migliori prestazioni elettorali nei comuni periferici (45,5) o ultraperiferici (43,8) e quelle peggiori nei comuni polo.
Anche la cartografia elettorale dell’Emilia Romagna risulta particolarmente significativa e mostra come nel giro di qualche anno la Lega sia diventato il primo partito nel 66,5% dei comuni (erano il 7% nel 2014) mentre il PD prevale nel 33% dei comuni (erano il 92% nel 2014). Il voto del 26 gennaio ha dunque ribadito l’esistenza di “due Emilie”, come le ha definite l’Istituto Cattaneo, quella “periferica”, marginale, estesa e a bassa densità insediativa contrapposta a quella “centrale e urbana” caratterizzata dalla concentrazione, dalla densità e dalla complessità fisica, funzionale, sociale e simbolica.
Volendo estremizzare il concetto per renderlo ancora più esemplificativo potremmo quasi dire che questi due mondi economicamente, socialmente e culturalmente distanti rappresentano anche plasticamente quel nuovo bipolarismo tra neoliberismo progressista e populismo reazionario di cui parlavamo sopra. Capire come costruirsi una spazio politico di autonomia senza farsi sussumere dall’uno o dall’altro polo e riportare la barra sul conflitto di classe è il grande quesito che ci troviamo ad affrontare, con la consapevolezza che almeno nel breve periodo questa tenaglia non prevede alcuno spazio elettorale “altro”. La nostra lotta politica in questo momento non può che essere fuori dalle istituzioni.
PS Se non abbiamo commentato le performance elettorali della sinistra radicale non è per carità di patria, ma solo per evitare di continuare a scrivere sempre le stesse cose, del resto dopo essere finiti sotto i No Vax più che un’analisi del voto servirebbe quasi un’autopsia.