Mitologie criminali, distorsione della realtà e fascinazione mafiosa: Suburra (la serie)

Mitologie criminali, distorsione della realtà e fascinazione mafiosa: Suburra (la serie)

 

“Mafia capitale” ha recentemente prodotto le proprie sentenze di primo grado (qui un articolo, qui la sentenza completa): niente 416 bis, nessuna associazione mafiosa, “soltanto” un sistema ramificato di corruzione organizzato da due associazioni per delinquere collegate fisicamente dalla figura di Massimo Carminati. In compenso dal 2014, dall’inizio cioè dell’operazione denominata «Mondo di mezzo», si è prodotto una vasto e straniante universo narrativo fatto di film, libri, documentari, inchieste giornalistiche e, in questi ultimi mesi, di una serie Netflix dal grandissimo seguito mediatico: Suburra. La serie sfrutta moduli narrativi ormai standardizzati: da Romanzo criminale e Gomorra, passando per Narcos, si è imposto un format discorsivo che travalica i confini mediatici per divenire fatto culturale, immaginario sociale. La trasposizione seriale perde così i caratteri della finzione, di fiction, per sfumare indirettamente nell’inchiesta romanzata, alterando la percezione della realtà, creandone anzi una parallela. Una realtà alternativa che progressivamente acquista più legittimità delle versioni ufficiali, proprio perché presentata come il “non detto” delle sentenze e delle dichiarazioni politiche. La verità “della strada” contro quella “del palazzo”.

Ci sono due piani paralleli e al tempo stesso sovrapposti attraverso cui è possibile cogliere le tracce telluriche di queste operazioni di politica culturale: da una parte svelare un lessico narrativo che ha come obiettivo la costruzione di mitopoiesi artefatte, cioè che procedono dall’alto verso il basso mentre si presentano camuffate dal basso verso l’alto. Per essere più precisi: le fiction appena riferite si propongono come racconto “della strada”, delle sue leggi e delle sue verità (si presentano quindi come operazioni di realismo narrativo), mentre sono il racconto attraverso cui il potere (economico e politico) interpreta quello che avviene nella società. Questa operazione è talmente mascherata e sostenuta dai giganti dell’infotainment che è in grado di incidere sulla realtà stessa, stravolgendone i riferimenti e retroagendo sulla legittimità della stessa riproduzione mediatica. Il piano parallelo e al tempo stesso sovrapposto è quello di valutare il realismo stesso di queste narrazioni, cioè la sua corrispondenza con la realtà (intesa ovviamente nel suo senso generale, non nella simmetria pedissequa di ogni fatto o contesto). Partiamo allora dal primo livello.

Come noto, Suburra (qui parliamo sempre e solo della serie Netflix, non del film di qualche anno prima) si presenta come rievocazione romanzata del contesto criminale definito “Mafia capitale”. C’è il personaggio di Samurai, corrispondente sin dal soprannome a Massimo Carminati; il suo fido sodale e guardaspalle, presumiamo ispirato alla figura di Riccardo Brugia; c’è la famiglia Adami, boss di Ostia e probabilmente ispirata ai Fasciani; gli Anacleti, la famiglia di «zingari» che potrebbe ricordare i Casamonica. Ci sono poi la sfilza di politici corrotti, e qui ci si potrebbe sbizzarrire a trovare i vari accostamenti, via via meno evidenti. Insomma, nessuno ovviamente viene collegato con nessi diretti (tranne per Samurai-Carminati), ma i protagonisti ci sono tutti e i dettagli svelano i riferimenti con la realtà. Eppure a prendere forma non è una rievocazione parallela e necessariamente romanzata: ad essere deformata appare la verità.

Cercando su Google un qualsiasi riferimento alle famiglie inquisite per fatti di mafia a Ostia, ad apparire per prime sono immagini di questo tenore:

I protagonisti del “clan Adami”, viceversa, nella serie appaiono in questo modo:

Notate le differenze? Questo che potrebbe apparire come fatto secondario è invece parte di una costruzione narrativa precisa. I criminali di Ostia, quelle stesse famiglie che suscitano scalpore e riprovazione dai media unificati, dalla politica e dalla cultura ufficiali, vengono presentati nella fiction come modelli in grado di suscitare fascinazione, a partire dal più basilare e immediato livello fisico. La mafia, a Ostia, viene impersonata da modelli “belli e maledetti”. Questo, che potrebbe apparire come fatto marginale, evidentemente non lo è quando tale fascinazione agisce su altri livelli, toccando ad esempio quelli politici. Nel 2008 assistemmo addirittura a interrogazioni parlamentari perché un film su Prima linea (La Prima linea) fu prodotto con contributi statali e interpretato da Riccardo Scamarcio, giudicato «troppo bello» per interpretare un «terrorista», rischiando così di suscitare fascinazione e, magari, emulazione. Evidentemente, lo spettro della fascinazione non agisce quando ad essere emulata potrebbe essere la mafia.

Ma è lo schema narrativo a produrre una realtà distorta che porta inevitabilmente lo spettatore a parteggiare per una delle parti in causa, presentata, attraverso sofismi discorsivi, come “male minore” non rispetto allo scontro mafioso, ma rispetto alla società nel suo insieme. La società è presentata come sistema chiuso in cui regna la corruzione. Attenzione: non questo o quel modello di società, ma la società nel suo insieme, nelle sue diverse, e in fondo speculari, alternative. Se è tutto corruzione, la narrazione così organizzata porta a “tifare per il male minore”, che poi sarebbe il mafioso simpatico, bello, ovviamente – ça va sans dire – dai buoni sentimenti “nonostante il contesto”, la famiglia, eccetera. Scompaiono le vittime materiali: chi “perde”, in questa riproposizione artefatta della realtà, è soltanto un altro mafioso meno furbo, meno intelligente, meno bello, meno scaltro, di chi “vince”; scompaiono i contesti reali: non c’è traccia di poteri forti, dell’intreccio indissolubile tra economia legale ed economia criminale, delle scelte politiche frutto non della corruzione illegale, ma dell’ideologia legale. Insomma, la società di Suburra non esiste, è una riproposizione fraudolenta di narrazioni contaminate da una precisa ideologia: l’alternativa non può provenire dalla politica, perché la politica, in quanto tale, è per definizione sinonimo di corruzione. Per tale motivo il politico “idealista” è solo uno sfigato in ritardo sui tempi, e quello realista è invariabilmente un corrotto. E’ allora inevitabile che in tale riproduzione fumettistica della realtà a convincere sarà sempre il più furbo, poco importa che sia mafioso, sempre meglio che terrorista, cioè militante politico.

Il confronto tra fiction e realtà è, in tal senso, sintomatico. Per svelarlo è però necessario riferirci al processo di Mafia capitale, cercando di cogliere cosa è stato davvero questo sodalizio criminale che avrebbe governato Roma per un quindicennio. Anzitutto la parola «mafia», termine giornalistico immediatamente divenuto di senso comune. A Roma c’è (o c’è stata) la «mafia»? Arduo dare una risposta. Giornali e inchieste hanno stabilito di si:

i giudici che hanno emesso la sentenza di primo grado hanno, al contrario, detto di no:

«Va detto che il Tribunale non ha individuato, per i due gruppi criminali, alcuna mafiosità “derivata” da altre, precedenti o concomitanti formazioni criminose. […] Le due associazioni non sono caratterizzate neppure da mafiosità autonoma. […] Deve quindi ribadirsi l’impossibilità di tenere conto – ai fini della configurazione del reato di cui all’art. 416 bis c.p. – di eventuali condotte qualificabili come “riserva di violenza”, condotte che possono riguardare soltanto le mafie “derivate”, le uniche in grado di beneficiare della intimidazione già praticata dalla struttura di derivazione. […] La “mafiosità” recepita dal legislatore nella attuale formulazione della fattispecie di cui all’art. 416 bis per la quale, non è sufficiente il ricorso sistematico alla corruzione ed è invece necessaria l’adozione del metodo mafioso, inteso come esercizio della forza della intimidazione. […] Non è possibile stabilire una derivazione tra il gruppo operante presso il distributore di benzina, l’associazione operante nel settore degli appalti pubblici e la Banda della Magliana, gruppo criminale organizzato e dedito ad attività criminali particolarmente violente e redditizie (il traffico e lo spaccio di droga, il gioco d’azzardo, le usure e le estorsioni, il possesso di armi e gli omicidi per assicurarsi il controllo del territorio ) che ha operato nella città di Roma, ramificandosi pesantemente sul territorio, oltre 20 anni orsono, tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli anni 90».

Per districarci potremmo partire dai numeri. Di quanto stiamo parlando? Secondo quanto scrive Davide De Luca su Il Post

«Tra appalti e tangenti, la quantità di denaro coinvolto nell’inchiesta “Mafia capitale” non sembra particolarmente rilevante rispetto agli altri grandi scandali scoperti dalla magistratura negli ultimi tempi, come lo scandalo EXPO e quello che ha riguardato il MOSE […] Cominciamo con il dare un’occhiata ai bilanci di “29 Giugno”, il consorzio di cooperative presieduto da Salvatore Buzzi […] Nel 2013 la società aveva un fatturato di 58 milioni di euro e utili per circa un milione di euro. Secondo i magistrati, nel biennio 2012-2014, la cooperativa ha ottenuto appalti in almeno tre diversi settori grazie alla corruzione: la gestione di un campo rom, di alcuni centri di accoglienza e della cura di alcune aree verdi del comune di Roma. Non è chiaro quanto sia il valore di questi appalti, ma secondo un’informativa dei carabinieri, tra il 2003 e il 2013, la società ha ottenuto in tutto appalti per un valore di 98 milioni di euro […] Per quanto riguarda le tangenti è molto più difficile trovare numeri precisi. I giornali hanno pubblicato una sorta di “libro delle tangenti” in cui sarebbero segnati alcuni di questi pagamenti. Mettendo insieme queste cifre con i riscontri di bonifici pagati da “29 Giugno” e con le intercettazioni telefoniche possiamo individuare almeno un ordine di grandezza di questa corruzione. Secondo i documenti al momento disponibili, stiamo parlando di circa 500 mila euro».

Sembrerebbero, a prima vista, numeri importanti. Eppure, se paragonati all’economia romana nel suo complesso, o anche solo riferiti ad altri fatti di corruzione del paese, assumono tutt’altra dimensione:

«A primavera è scoppiato lo scandalo EXPO, nel quale i magistrati hanno accusato di corruzione la società di costruzioni Maltauro, che si occupava di alcuni lavori collaterali ad EXPO. La Maltauro aveva fino al 2013 un bilancio di circa 450 milioni di euro l’anno (dieci volte più grande di “29 Giugno”, quindi). Sempre secondo i magistrati, la società avrebbe pagato nel giro di un paio d’anni una cifra nell’ordine di 1,2 milioni di euro a vari funzionari di EXPO (più del doppio della corruzione di cui si parla per “Mafia Capitale”). Il valore degli appalti influenzati da queste tangenti, sempre secondo i magistrati, sarebbe di circa 166 milioni di euro (quasi due volte la somma di tutti gli appalti ottenuti in 10 anni dalla cooperativa “29 Giugno”)».

Nessuno, nei casi di corruzione legati alla costruzione di Expo 2015, ha parlato di “mafia”. Non è certo l’unico o l’ultimo degli episodi eclatanti di corruzione in questo paese, e neanche il più importante:

«L’inchiesta più grande del 2014 però è senza dubbio quella che riguarda il MOSE, il sistema di paratie mobili che dovrebbe proteggere la laguna di Venezia dalle acque alte. Si tratta di un’opera del costo totale di 5,5 miliardi, una delle più grandi della storia repubblicana, affidata in esclusiva al Consorzio Nuova Venezia, una società formata da svariate imprese di costruzioni con un bilancio superiore ai 500 milioni di euro l’anno. Secondo i magistrati nel corso di quasi un decennio alcuni dirigenti del Consorzio hanno pagato in tangenti l’iperbolica cifra di 22 milioni di euro».

Nessuno, nei casi di corruzione legati alla costruzione del Mose, ha parlato di “mafia”. Ma andiamo avanti e riferiamoci alla più importante e vasta operazione anti-corruzione della storia politica del paese: Tangentopoli.

«Negli ultimi giorni “Mafia Capitale” è stata spesso paragonata a Tangentopoli, la grande inchiesta sulla corruzioni iniziata nel 1992. Uno dei casi più eclatanti di quegli anni fu la cosiddetta “Maxi tangente Enimont”. Secondo le sentenze, all’epoca vennero corrotti decine di politici con una serie di tangenti del valore di circa 150 miliardi di lire dell’epoca, ossia 175 milioni di euro 2014. Si tratta di una cifra che è circa 250 volte superiore al valore delle tangenti che i magistrati fino ad ora stimano che siano state pagate nell’inchiesta Mafia Capitale».

Altrove, l’economista Mario Deaglio ha provato a quantificare la corruzione legata a Tangentopoli:

«Deaglio ha stimato che il giro delle tangenti generasse orientativamente: 10.000 miliardi di lire annui di costi per i cittadini. Un indebitamento pubblico fra 150.000 e 250.000 miliardi di lire. Tra 15.000 e 25.000 miliardi di interessi annui sul debito. Secondo uno studio del settimanale Il Mondo, pubblicato nel 1992, la linea M3 della metropolitana di Milano costava 192 miliardi a chilometro, contro i 45 miliardi della metropolitana di Amburgo; il passante ferroviario aveva previsioni di spesa per 100 miliardi a chilometro in dodici anni di lavoro, mentre quello di Zurigo (costruito in sette anni) costava 50 miliardi a chilometro; i lavori per l’ampliamento dello stadio Giuseppe Meazza sono costati più di 180 miliardi e sono durati più di due anni, quelli dello stadio Olimpico di Barcellona sono costati 45 miliardi e sono stati completati in 18 mesi».

Staremmo parlando, in euro, di un giro d’affari fondato sulla corruzione di circa 150 miliardi di euro, in grado di stravolgere addirittura il bilancio dello Stato. Nessuno, riferendosi a Tangentopoli, ha mai utilizzato la parola “mafia” per descriverla nel suo complesso (nessuna “mafia meneghina” insomma). Il dato quantitativo, il valore del giro d’affari, i soldi mossi e deviati, non rappresenterebbero dunque il carattere decisivo per definire come mafiosa un’attività criminale. Almeno a giudicare dal diverso metro utilizzato da giornali e inchieste giudiziarie per circoscrivere e denominare i fatti.

C’è però un altro dato che emerge in forma plateale dai processi di “Mafia capitale” e che ovviamente risalta romanzato in serie e film: nessun ambito rilevante dell’economia cittadina viene toccato dai fatti in questione. La “mafia capitale” non avrebbe nulla a che fare con i grandi lavori pubblici (ad esempio Metro C, o la costruzione della nuova tangenziale interrata tra la stazione Tiburtina e Nomentana, per dirne due dei più importanti); non avrebbe niente a che vedere con l’economia palazzinara, su cui si fonda la valorizzazione del capitale privato romano; non avrebbe niente a che vedere coi grandi progetti urbanistici, con la Fiera di Roma, lo stadio, le nuove direttrici, niente di niente. Men che meno col traffico di droga, di cui anzi Carminati viene sempre presentato come ideologicamente contrario. “Mafia capitale” si risolve nella gestione di alcuni centri migranti, il campo rom di Castel Romano e la pulizia del verde cittadino. Dunque, seguendo il filo dei ragionamenti giornalistici, la mafia (del sud o romana) lascia fare dove girano i soldi, quelli veri, per accanirsi sulla gestione degli spiccioli dell’accoglienza.

Eppure, a vedere la serie Netflix Samurai-Carminati è presentato come “il papa”, il “governatore”, “l’amministratore”, il “sindaco” della città. Non si muove foglia che Carminati non voglia. Samurai è presentato come “padrino”, manovratore di fili e di interessi, attraverso cui si svolge l’economia criminale cittadina. Come scritto da Valerio Renzi su FanPage:

«Ma cosa c’è di vero in questa immagine? Secondo quanto scritto nero su bianco nella sentenza di primo grado (che ha visto la condanna di Carminati a 20 anni di carcere) poco o nulla. In tre anni d’indagine sono 11 gli episodi criminali riferiti al Cecato e al suo gruppo con base nel distributore di Benzina di Corsa Francia. Estorsioni e usura per piccole cifre, prestiti a strozzo all’interno di una ristretta cerchia di persone provenienti tutte dal medesimo milieu. Azioni di un cabotaggio criminale tutto sommato basso, per quanto gravi, perché molto più remunerativi gli affari condotti assieme a Salvatore Buzzi e alle sue cooperative, facendo convergere interessi e oliando gli ingranaggi a suon di ‘benefit’, versamenti e mazzette».

L’inchiesta Rai su «I mille giorni di Mafia capitale», peraltro viziata da una riproposizione dei fatti volta a dimostrare la tesi della mafiosità del sodalizio centrato su Carminati, smaschera bene il livello criminale dei fatti appena ricordati. Due personaggi, Carminati e il suo braccio destro Brugia, che passano le giornate a un distributore di benzina, intenti a vivacchiare, dediti a piccoli traffici delinquenziali, usura e poco altro. Due criminali, probabilmente pericolosi, ma basta un atteggiamento a fare di Carminati un mafioso? Anzi: il mafioso che controlla la città, la sua economia così come la sua politica? Per dire, in tutta l’inchiesta, le perquisizioni, le intercettazioni, i pedinamenti, gli arresti, eccetera, non viene trovata neanche un’arma:

«Per i giudici Massimo Carminati non è un boss mafioso e ‘Mafia Capitale’ non è un’associazione mafiosa: mentre Samurai se ne va in giro all’occorrenza circondato da un esercito armato fino ai denti, i giudici del tribunale di Roma sottolineano a più riprese come a disposizione del gruppo criminale facente riferimento a Carminati non siano state ritrovate armi. E se è vero che Carminati è riconosciuto dagli esponenti di diversi gruppi criminali e da un boss di camorra come Michele Senese, questo avviene in virtù della sua lunga carriera e non in virtù del suo ruolo apicale nella criminalità organizzata romana, ormai organizzata attorno alle piazze di spaccio e al controllo di alcuni territori di periferia».

C’è un frammento emblematico nella sua involontaria comicità, ripreso dalle intercettazioni ambientali e presente nell’inchiesta di RaiPlay. Al tavolino del bar di Largo di Vigna Stelluti, dove sono soliti trovarsi i due padrini della città (Carminati&Brugia) siede con loro un imprenditore che avrebbe bisogno di protezione (protezione nel senso elementare del termine: un gorilla che gli guardi le spalle). Per dimostrare che «loro fanno sul serio», per accreditarsi insomma, chiamano il parcheggiatore abusivo della piazza e, dal tavolino, gli imbruttiscono. Il tono è questo: «perché parli con le guardie?»; «noi siamo i quattro uomini di piombo»; «te sparamo». E così via. E’ una scena surreale, che descrive due cazzoni, non due mafiosi.

Eppure, Samurai-Carminati è presentato non solo come l’eminenza grigia della capitale, ma come vertice di un sodalizio criminale armato fino ai denti. La realtà viene deformata, e quello che è, nei fatti, un criminale comune che è salito di livello grazie all’amicizia con Salvatore Buzzi viene presentato come “la mafia a Roma”. Allora, forse, è il caso di occuparci proprio di Buzzi, casomai fosse invece lui il vertice dell’associazione mafiosa.

Salvatore Buzzi ha corrotto per anni pezzi dell’amministrazione capitolina, fino ad arrivare ai livelli politici, per farsi assegnare in via diretta appalti per la gestione di alcuni Sprar – centri di accoglienza e protezioni rifugiati e richiedenti asilo – per la pulizia del verde pubblico e delle strade, e per la gestione di alcuni campi rom. Come abbiamo visto il giro d’affari complessivo della cooperativa “29 giugno” è poca cosa, un’inezia nell’oceano dell’economia cittadina legale e illegale. Il problema è però, in questo caso, un altro: il modus operandi di Buzzi non si discosta di molto dal modo in cui si finanzia la politica, cioè attraverso “donazioni” private fatte a pioggia e verso ogni partito. Ogni palazzinaro, costruttore, imprenditore che ha a che fare con l’amministrazione comunale per vedersi assegnati bandi e concorsi, appalti e affidi diretti, olia la macchina municipale attraverso donazioni. Donazioni considerate perfettamente legali, visto che l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti impone il finanziamento privato quale unico canale di sostentamento dell’attività partitica. Buzzi è sicuramente un corrotto e un corruttore, ma è il sistema complessivo a generare questo rapporto incestuoso tra affari e politica, come rilevano in maniera stupefacente persino i giudici:

«Sembra evidente la profonda diversità tra gli affari criminali dell’epoca [della Banda della Magliana, ndr] e quelli accertati nel corso del presente processo, i quali attengono – quelli relativi agli appalti pubblici – ad una particolare forma di rapporti tra mondo politico ed imprenditoria organizzati in funzione, specialmente, di assicurare ai partiti politici il finanziamento necessario alla loro sopravvivenza e di spartire tra le varie componenti politiche (e tra gli imprenditori a ciascuna riferibili) il provento dei lucrosi affari connessi alla gestione della cosa pubblica».

Una dinamica moltiplicata dal processo di esternalizzazione dell’economia cittadina, un tempo pubblica e sotto controllo della politica, oggi affidata, direttamente o tramite bando europeo, al capitale privato. La gestione di una parte fondamentale di servizi essenziali al funzionamento della città: dal trasporto pubblico alla sanità, dalle utenze all’accoglienza migranti, dalla pulizia al decoro urbano, sono oggi appaltati ai privati, così determinando la corruzione come normale gestione dei rapporti tra politica e privati.

Ma di Salvatore Buzzi non c’è traccia, nella fiction Netflix, anche perché la serie affronta gli anni immediatamente precedenti a quelli indagati nell’inchiesta e che vedranno il sodalizio tra Carminati e Buzzi. C’è, al contrario, un città che non esiste: da una parte, la fantasmagoria di quartieri militarmente controllati “dalla mafia” (ma quando mai…); dall’altra, laddove invece la mafia esiste davvero, e cioè nel rapporto corrotto tra politica ed economia reale, coi suoi referenti palazzinari, semplicemente scompare. C’è solo Samurai-Carminati come primus inter pares tra le famiglie mafiose che si spartiscono il territorio. Per di più, venendo meno ogni riferimento alle vittime materiali delle relazioni criminali così impostate, addirittura simpatico, quantomeno “un vero duro”, avvolto in una dimensione tragica tipica del Capo su cui incombe e precipita tutta la filiera criminale.

Suburra è allora un fumetto, che però si presenta come operazione realistica. Di qui il cortocircuito che produce nella percezione collettiva, secondo la quale a Roma c’è (c’era?) il Padrino come punto di congiunzione tra affari leciti e illeciti, politica e criminalità. In realtà la mafia, a Roma, esiste, così come esiste nel resto del paese, da nord a sud. Solo che non trova posto nell’immaginario fatto di serie tv e film mainstream. In questo immaginario la mafia è solo il modo più opportuno (e affascinante) di sopravvivere in una società incattivita e individualizzata. Il motto è sempre il solito: arricchitevi! E se per farlo bisognerà violare qualche regola, poco importa: chi le ha stabilite è corrotto tanto quanto chi decide di violarle. E’ la legge della giungla. Quando poi si presenta nella realtà, suscita molto meno fascino di quanto piace raccontare ai Michele Placido o ai Roberto Saviano di turno.