Marchionne, Marx e le ripartenze…

Marchionne, Marx e le ripartenze…

La strada che porta all’inferno è lastricata di buone intenzioni, recita più o meno così il detto popolare. E di buone intenzioni nell’incontro tra FIAT e Governo ne sono state tirate fuori tante quante erano le slide di Marchionne; quello che invece ancora una volta è mancato, e non poteva essere altrimenti, sono stati gli impegni precisi. Confessiamo che da quando Marchionne ha rimesso nel cassetto il suo piano industriale “Fabbrica Italia” e i suoi fantomatici 20 miliardi di euro di investimenti, siamo quasi riusciti nuovamente a stupirci dello stupore, ovviamente ipocrita, dimostrato da ministri, sindacalisti e maître à penser. Che fosse questo l’epilogo alquanto scontato della vicenda era infatti chiaro fin dall’inizio e non c’era bisogno di scomodare gli aruspici per rendersene conto, bastava solo un po’ di buon senso. Ovviamente questa manfrina del “Marchionne ci deve una spiegazione” a cui adesso partecipano un po’ tutti e che ribadiamo essere assolutamente ipocrita serve solo, come si direbbe a Roma, a buttarla in caciara. Cercando così di far dimenticare ai lavoratori d’essere stati (s)venduti in cambio di niente dopo averli ricattati in ogni modo prima dei referendum. Quello che colpisce ancora di più è però l’approccio prettamente moralistico con cui, anche a sinistra, si è portati a commentare l’operato del manager di Torino, dipinto di volta in volta come cattivo, ingrato, bugiardo, furbetto… dimenticando che egli agisce da capitalista, cioè da capitale personificato, dotato di volontà e consapevolezza, unicamente perché il movente delle sue azioni è una crescente appropriazione  della ricchezza astratta (K. Marx, Il Capitale, Libro I, cap 4). Insomma come abbiamo già scritto una volta Marchionne non è un padrone perché è stronzo, ma è stronzo perché è un padrone, e c’è una bella differenza. Come spiegava Marx per cercare di comprendere le sue azioni e magari anticiparne le mosse bisogna comprendere la sua logica e i limiti oggettivi entro cui può muoversi, che poi sono anche quelli della stessa produzione capitalistica ossia che il capitale e la sua auto valorizzazione appaiono come punto di partenza e punto di arrivo, come motivo e scopo della produzione; e che la produzione è solo produzione per il capitale (K. Marx, Il Capitale, Libro III, cap 15).

In estrema sintesi il filosofo di Treviri ci dice che un capitalista deciderà conformemente al suo ruolo sociale di investire il suo capitale solo se avrà la ragionevole certezza che esso uscirà dal ciclo D-M…P…M’-D’ accresciuto in ragione di quello che sempre Marx definisce come saggio di profitto poichè quest’ultimo costituisce la forza motrice della produzione capitalistica: viene prodotto solo quello che può essere prodotto con profitto e nella misura in cui tale profitto può essere ottenuto (K. Marx, Il Capitale, Libro III, cap 15). Ora dal momento che il marxismo è per noi tutto fuorché un dogma o un atto di fede, e che il Capitale non è né il Talmud né il libro dei Salmi, varrebbe la pena di provare a vedere se questa chiave interpretativa resta ancora la più appropriata per analizzare l’operato della FIAT, in special modo quello di questi ultimi anni. Partiamo allora da una delle formule che rappresentano il nocciolo dell’elaborazione marxiana, ovvero quella del saggio di profitto (r). Secondo Marx questo è dato dal rapporto tra il plusvalore (pv) e l’intero capitale anticipato (K). Ovvero

r=pv/K.

Marx ci dice anche che la parte del capitale che si converte in mezzi di produzione, cioè in materia prima, materiali ausiliari e mezzi di lavoro, non cambia la propria grandezza di valore nel processo di produzione. Quindi la chiamo parte costante del capitale, o , in breve, capitale costante. Invece la parte del capitale convertita in forza-lavoro cambia il proprio valore nel processo di produzione. Riproduce il proprio equivalente e inoltre produce un’eccedenza, il plusvalore, che a sua volta può variare, può essere più grande o più piccolo. Questa parte si trasforma continuamente da grandezza costante a grandezza variabile. Quindi la chiamo parte variabile del capitale, o in breve: capitale variabile (K. Marx, Il Capitale, Libro I, cap 6). Dunque il capitale anticipato (K) può essere distinto in capitale costante (C) e capitale variabile (V), ragione per cui la formula del saggio di profitto può essere scritta come

r=pv/C+V.
Fatta questa debita premessa e tenendo a mente qualche nozione di matematica delle medie sulle frazioni, diviene evidente che quando Marchionne due anni or sono si è lanciato nella crociata sulla produttività chiedendo l’intensificazione dei ritmi, il taglio delle pause e la saturazione dell’orario di lavoro sia a Pomigliano che a Mirafiori (leggi), il suo scopo non era affatto quello di estirpare la piaga dell’assenteismo o la pigrizia dei lavoratori, come pure avrebbero voluto farci credere. Si trattava invece di un più prosaico tentativo di accrescere il numeratore della formula, ovvero il plusvalore, aumentando il grado di sfruttamento degli operai. Infatti data la forza produttiva del lavoro e il suo grado normale di intensità, il saggio del plusvalore (pv/V, NdR) si può far salire soltanto mediante il prolungamento assoluto della giornata lavorativa; d’altra parte dato il limite della giornata lavorativa, il saggio del plusvalore si può far salire soltanto mediante la variazione relativa della grandezza delle parti costitutive di essa, lavoro necessario e pluslavoro, il che presuppone, qualora il salario non debba scendere al di sotto del valore della forza-lavoro, una variazione della produttività o intensità del lavoro (K. Marx, Il Capitale, Libro I, cap 14). Parallelamente, imponendo i 18 turni settimanali, l’obiettivo era la riduzione del denominatore abbassando il costo relativo del capitale costante (C) in rapporto al capitale complessivo (K). Il valore del capitale fisso si riproduce in tal modo in una serie più breve di periodi di rotazioni, vale a dire si accorcia il tempo per cui esso deve essere anticipato al fine di produrre un determinato profitto (K. Marx, Il Capitale, Libro III, cap 5).

C’è poi il capitolo delle delocalizzazioni, e qui ci pare abbastanza intuitivo comprendere che quando la FIAT sposta parte della produzione in Polonia, in Serbia o in Brasile non lo fa perché li gli operai sono più capaci o disciplinati e non scioperano durante le partite della nazionale, ma perché la multinazionale torinese proprio come tutte le multinazionali manifatturiere è alla perenne ricerca di quei bassi salari che, oltre a far crescere il plusvalore estorto agli operai (numeratore), diminuiscono sensibilmente il denominatore abbassando la quota di capitale anticipato utilizzata per acquistare la forza-lavoro (V). E a proposito conviene soltanto ricordare brevemente che il salario esercita sulla grandezza del plusvalore e sul livello del saggio di plusvalore un’azione inversa a quella esercitata dalla lunghezza della giornata lavorativa e dall’intensità del lavoro (K. Marx, Il Capitale, Libro III, cap 5). Per dare solo un’idea di ciò di cui stiamo parlando si consideri che il costo del lavoro annuale per una affiliata di una multinazionale italiana passa dai 50 mila euro in paesi come Francia e Germania ai 3,7 mila euro procapite quando ci si sposta in India oppure a 2,7 mila euro in Cina. C’è poi un altro modo per abbassare il denominatore, ed è quello che ha permesso al nostro Marchionne di abbattere il valore del capitale costante grazie ai dollari elargiti da Obama per salvare la Cryshler, sulla falsa riga di quant’è accaduto nell’ultimo trentennio con la privatizzazione a prezzi irrisori di molte imprese pubbliche.

Sgombrare il campo dalla critica etico/moralista dell’operato di Marchionne per poi riportarla su un piano materialistico e di classe può forse sembrare un esercizio accademico, ma si porta dietro alcune ricadute pratiche. La più importante è che se Marchionne non è semplicemente “perfido” o “stronzo”, e invece le leggi immanenti della produzione capitalistica gli si impongono come leggi coercitive esterne (K. Marx, Il Capitale, Libro I, cap 8), allora continuare a sperare che prima o poi si “ravveda”o articolare vertenze affinché egli si comporti in maniera incoerente con la propria ragion d’essere essere sociale sono cose che lasciano il tempo che trovano. Con ogni probabilità la FIAT non investirà nemmeno un centesimo sugli stabilimenti italiani da cui, anzi, si disimpegnerà progressivamente. Di questo fatto occorre prenderne atto e muoversi di conseguenza. Detta qui in maniera estremamente sintetica il processo di valorizzazione del capitale si compie quando la merce prodotta trova degli acquirenti, ma è proprio questa trasformazione da merce-capitale in denaro (M’-D’) che ormai avviene con sempre maggiori difficoltà. Il ciclo del prodotto dell’auto è prossimo ad esaurirsi e, come ci ricordano ogni giorno tutti i quotidiani, la sovraccapacità produttiva del settore, solo in Europa, è di 4 milioni di veicoli all’anno. In Italia ci sono già quasi 600 automobili ogni 1000 abitanti, nel resto dei paesi dell’area OCSE la situazione è simile e attualmente il mercato dell’auto è pressochè esclusivamente un mercato di sostituzione. Immaginare che la motorizzazione di massa dei cosiddetti BRICS possa dare nuova linfa la mercato automobilistico, al di la di quello che ciò significherebbe da un punto di vista energetico ed ambientale, è al momento un visione ottimistica del futuro piuttosto che una certezza. E quand’anche questa nuova motorizzazione di massa davvero si realizzasse, ci viene da pensare che difficilmente avrebbe ricadute occupazionali positive in occidente. Perché mai dovrei produrre auto per il mercato cinese in Europa quando posso farlo direttamente in Cina a costi inferiori? Così come ci pare di corto respiro anche auspicare che le fabbriche “eccedenti” possano essere rilevate da qualche altra multinazionale più virtuosa.

Al di la dell’insipienza del management torinese la saturazione del mercato automobilistico è un fatto incontrovertibile e generale che coinvolge tutto e tutti. A inizio luglio il gruppo PSA Peugeot Citroen ha presentato un piano che prevede il taglio di 8000 posti di lavoro e la chiusura dello stabilimento di Aulnay. Ford sta proponendo piani di prepensionamento agli operai dei suoi stabilimenti europei e anche alla Volkswagen c’è chi ormai parla apertamente di contratti di solidarietà. Secondo il Sole 24 ore sempre in Europa la contrazione produttiva seguita allo scoppio della crisi economica equivale grossomodo a quella di 10-15 stabilimenti che, dunque, sarebbero di troppo. E’ chiaro che se questo è il quadro e se si rimane nella cornice delle compatibilità capitalistiche quella che ci si prospetta di fronte è una ristrutturazione dell’industria automobilistica (e manifatturiera in generale) a cui si accompagnerà l’inevitabile recrudescenza della competizione fra le multinazionali del settore per sottrarsi vicendevolmente quote di mercato. E i costi di questa ristrutturazione saranno scaricati interamente sulla forza-lavoro, indipendentemente da quale passaporto abbia in tasca. E’ altrettanto evidente, però, che oggi come oggi presentarsi di fronte ad una fabbrica in crisi prospettando agli operai come unica via d’uscita quella della rivoluzione proletaria è, per quanto questo possa essere corretto dal punto di vista analitico, quantomeno velleitario. Si rischia d’essere presi per matti o, se va bene, per parolai. Sarebbe un po’ come chiedere ad una squadra costretta sulla difensiva per tutta la partita di vincere con una goleada nel finale. Ora, non siamo certo noi a poter stilare un’agenda minima di rivendicazioni che siano al tempo stesso “plausibili” e non esclusivamente difensive, però se la situazione è quella che abbiamo descritto ci verrebbe quasi da dire: Caro padrone, c’è meno domanda di automobili? Bene, allora produciamone di meno e ripartiamo equamente  tra tutti i lavoratori dell’azienda il tempo di lavoro necessario a farlo, e senza per questo ridurre il salario. Insomma, lavoriamo di meno e lavoriamo tutti. Non ti sta bene? Allora le “tue” fabbriche “eccedenti” diventano pubbliche, espropriate senza alcuna forma di risarcimento visti anche i miliardi di euro di sovvenzioni pubbliche con cui in questi anni vi siete ingrassati. Insomma, se una goleada in questo momento sembra una pura utopia, almeno attrezziamoci per il contropiede.