Lo Stato ha bisogno di te

Lo Stato ha bisogno di te

Questa manovra, come avrete tutti capito, è fatta per poter dare un futuro al nostro paese. Dopo anni di bagordi incontrollati, in cui ci sollazzavamo alle spalle dei crucchi tedeschi e dei mangiarane francesi, andando per giunta in pensione poco più che maggiorenni, ovviamente accumulando due o tre pensioni (rigorosamente d’oro – e con qualche lavoretto in nero per arrotondare), i mercati hanno deciso che non potevamo più continuare ad accumulare un debito pubblico che avrebbero dovuto pagare i nostri figli. Per non compromettere il futuro delle generazioni a venire, per poter dare una speranza ai nostri nipoti, è giusto oggi affrontare i duri sacrifici che gli imparziali occhi dei mercati ci impongono, per poter ancora finanziarci e permetterci il nostro welfare, residuo di socialismo reale che però grazie al cielo è in via di superamento.

Serve, invero, un nuovo patto generazionale. Basta baby pensionati, per di più con la truffa statalista di una pensione calcolata su una percentuale del proprio stipendio. Tutti in pensione a 67 anni, in base certo ai soli contributi versati. Sono i nostri figli che ce lo chiedono. Quei fanciulli sui quali scarichiamo sul groppone 35.000 euro di debito cadauno, che dovranno ripagare, forse appena si iscriveranno all’università o alla fine del ginnasio, non ci è dato sapere. Ci sono però delle cose che ancora fatichiamo a comprendere, nonostante tutto lo sforzo di noi giovani o futuri genitori, certamente in ansia per i nostri poveri figli a cui destineremo i nostri odiosi debiti.

Ad esempio, questa cosa per cui si dovrebbe ritardare l’uscita dal lavoro perché l’età media si sarebbe innalzata. Ecco, questa cosa non ci riesce davvero di capirla, nonostante tutta la nostra buona volontà e la nostra sporca coscienza di padri ingrati. A quanto ne sappiamo, l’età media dell’uomo è sempre la stessa, si aggira fra gli ottanta e i novant’anni, con punte che possono toccare i cento così come i settanta. E’ così da quando è nato l’uomo, era la stessa età in cui di norma si crepava anche millenni fa, e non capiamo dove e quando ci siamo ritrovati a vivere di più. Quello che le campagne ideologiche cercano di tacere è che l’età media di vita dell’uomo non si è assolutamente innalzata. Semmai, migliorando le condizioni igenico-sanitarie delle società in cui viviamo, è aumentato il numero di individui che possono raggiungere tali venerande età. Ma non è aumentata nessuna età media, l’uomo dura oggi come durava al tempo dei greci e dei romani. Altrimenti, seguendo la logica di questo “ragionamento”, fra qualche anno arriveremo a vivere forse centocinquant’anni, oppure duecento. Ma perché porci dei limiti, a leggere certe tabelle di crescita dovremmo stare su trecento e i quattrocento anni di qui a qualche tempo.
Oltretutto, se tanto ci da tanto – e seguendo certe deduzioni – decenni fa si sarebbe dovuti andare in pensione molto prima, verso i quarant’anni, o al massimo i cinquanta. E invece ci risulta che andavamo in pensione sempre a sessant’anni suonati (da quando ci sono le pensioni, altrimenti lavoro a vita e diritti zero). Chissà quanto avranno accumulato i boiardi, chissà di quali fondi inestimabili è possidente l’INPS e le casse dello Stato. Appena li troveranno utilizzeranno sicuramente quei soldi per garantire oggi una pensione a tutti (!)

 

(Commentino: è’ forse uno dei motivi per cui l’INPS è una delle rarissime aziende statali costantemente in attivo finanziariamente? Come fa una azienda che dovrebbe erogare un diritto – dunque agire in termini anti economici – essere in attivo? Dovrebbe lavorare costantemente in perdita e finanziarsi a spese dello Stato, e invece riesce addirittura ad accumulare patrimonio: dunque non è lo Stato che finanzia le nostre pensioni, come vorrebbero farci credere, ma i cittadini che se le pagano in misura maggiore a quello che poi ricevono in cambio una volta giunti in età pensionabile.)

 

Per di più, fino a qualche anno fa le pensioni venivano elargite a questi fantomatici baby-pensionati. Che uno si immagina qualche ragazzino, qualche sbarbatello già in fila  a ritirare l’assegno alla posta. E invece, con massima sorpresa, leggiamo che questi pensionati ancora bambini andavano in pensione fra i 58 e i 60 anni. Strano concetto dello sviluppo umano, quello per cui qualche nonno di 60 anni dovrebbe essere considerato addirittura “baby”. Ma tant’è. Se abbiamo capito bene dunque, a 60 anni sei baby, a 70 sei perfettamente in grado di lavorare; ci chiediamo uno di trent’anni come dovrebbe essere considerato. Probabilmente, un brufoloso pippaiolo.

La noiosa lettura dei quotidiani di questi giorni poi ci riserva veramente poco su cui commentare. Ogni commentatore, ogni giornale di qualsiasi orientamento, è all’affannata ricerca dell’equità sociale. A leggere certe ricette, diciamo che ci è andata bene così, di gran lunga: teniamoci stretta questa manovra che è la più equa possibile. Da centrosinistra e centrodestra, la richiesta d’equità viene declinata nei modi più bislacchi: dalla richiesta di fine immediata del sistema retributivo a quella per la riforma del mercato del lavoro, con la riforma della contrattazione e la scomparsa del contratto collettivo nazionale a tempo indeterminato (sempre per i figli ecc…); l’altro grande mantra su cui spingono gli economisti più avveduti, come quelli più stravaganti (vedi “pomodoro” Giannino), sarebbe l’avvio di un grande programma di privatizzazione di tutte quelle imprese ancora in mano pubblica. Che a ben vedere sono pochissime, anzi, quelle ancora appetibili sul mercato sono solo tre: ENI, ENEL e Finmeccanica, cioè le uniche tre aziende ancora considerate strategiche (e vedi un po’); senza parlare poi di Poste e Ferrovie, privatizzate ai tempi d’oro ma ancora a capitale pubblico; oltre a privatizzare, poi, ovviamente la ricetta dell’equità passa attraverso la dismissione di tutto il patrimonio pubblico, da vendere ai privati a prezzi regalati: caserme, palazzi, strade, reti elettriche e idriche, ecc..; infine, ovviamente, le liberalizzazioni, altro grande punto fermo dell’equità.

Ma il vero punto sul quale tutti concordano è che sia una manovra solo tasse. No! ribattono i solerti economisti: bisogna fare cassa tagliando la spesa pubblica, non aumentando le tasse!. Dunque, da sinistra come da destra, la soluzione ai problemi dello Stato sarebbe quella di tagliare le spese: la sanità, la scuola, i vari diritti sociali accumulati nel corso di questi anni. Cioè, sembra un paradosso ma è proprio così: mentre la manovra Monti va ad aumentare le tasse in una certa proporzione al reddito (sicuramente inadeguata e sproporzionata verso i redditi medio-bassi), la politica sta chiedendo un taglio netto delle spese dello Stato, cioè *meno diritti* e *meno Stato*. Reiterando la solita storiella immaginaria di un debito pubblico creato da uno Stato troppo “pesante”, che garantiva troppo ai cittadini. Chissà come fanno a concordare questa visione con quella opposta dell’ultimo governo Berlusconi, che ha creato in questi anni più di 500 miliardi di debito, cioè un terzo di tutto il debito pubblico italiano, senza però farsi ricordare come un governo “sociale”, o che aumentasse la quota dello Stato nell’economia, o moltiplicasse i servizi. Proprio per il motivo che andiamo dicendo da mesi: il debito pubblico non è creato dai servizi che lo Stato elargisce ai suoi cittadini, servizi che sono tutti ampiamente pagati con le tasse, dunque non si riduce nessun debito tagliando i servizi.

Al netto di tutte queste proposte d’equità, la manovra appena varata sembra davvero il frutto anacronistico di qualche reduce del keynesismo.  L’alternativa a questa manovra non esiste, perché l’alternativa sarebbe ancora più deleteria e traumatica, fino a quando non nascerà, nella sinistra italiana, la consapevolezza di rigettare completamente i presupposti politici che hanno potuto partorire questa manovra e questo governo (cioè finché non usciremo dall’ossessione del: tagliare, risanare, ridurre, liberalizzare, celochiedel’europa, ecc..). Ritrovare una autonomia culturale e politica significherebbe ricominciare a porre le premesse per tornare nella società. Sottraendoci al tatticismo delle alleanze minoritarie, per poter nuovamente dire la nostra e proporre una qualche forma d’alternativa che vada al di là della mera alternanza elettorale. Dopo Berlusconi, l’assenza di alternativa credibile e radicata ha prodotto Monti. Il perdurare di questa assenza politica produrrà un dopo Monti che sarà peggio, molto peggio.